Cosa vuol dire davvero essere madre. L'eredità più importante di Michela Murgia

Il dibattito sulla parola queer, come è cambiato negli anni: "Non esiste un termine italiano che sia in grado per ora di riprodurre i significati di queerness"

di Claudia Sarritzu

Queer è una parola inglese, il suo significato letterale è eccentrico, insolito, bizzarro. Oggi si usa tantissimo soprattutto come aggettivo per definire una famiglia costituita non da legami di sangue ma di semplice affetto. E' entrato nel dibattito pubblico e nelle scienze sociali, all’inizio degli anni Novanta. Ma nell'ultimo anno questa parola ha spopolato perché prima di morire la scrittrice e attivista Michela Murgia l'ha trasformata in un testamento. 

La prima apparizione in ambito accademico

Risale a un numero speciale della rivista differences curato da Teresa De Lauretis, Queer theory. Gay and lesbian sexualities che raccoglieva gli atti dell’omonimo convegno svoltosi nel febbraio dell’anno prima presso l’Università della California, a Santa Cruz. 

Teoricamente si pone l'accento sulla mutabilità, l’instabilità, la provvisorietà delle identità nel mondo di oggi. La differenza con l'esperienza femminista per esempio è la totale assenza di  separatismo. 

Infatti si differenzia anche dalle battaglie per i diritti degli e delle omosessuali di tutto il Novecento perché la politica queer non è interessata alle rivendicazioni identitarie. Non si preoccupa di definire cosa si è, perché basta esistere senza darsi un nome. Solo contenuto senza contenitore. Complicato da digerire dopo millenni di iper definizion-ismo.

Le radici sarde di Murgia

"La parola più queer che esista in sardo è "sa sposa/su sposu". Che in italiano significherebbe "fidanzata/fidanzato", ma che nella partica è usata continuamente per identificare rapporti che  non hanno nulla a che fare col fidanzamento. "I padri e le madri chiamano così i figli, che la usano a vicenda e verso i genitori. I nonni e le nonne ci chiamano tutto il nipotame. Gli amici e le amiche si apostrofano in quel modo tra loro anche scherzosamente in forma tronca: "sa spò/ su spò". aveva spiegato Michela Murgia quando era ancora in vita. "La queerness familiare è una cosa che esiste e raccontarla è una necessità sempre più politica, con un governo fascista che per le famiglie non riconosce altro modello che il suo". Approfondisci anche qui, clicca.

Michela Murgia ha raccontato molto bene questa parola al Corriere della sera prima di morire: "Queer, secondo i dizionari, è una parola vecchia di molti secoli. Indica da sempre una stranezza, un’anomalia. In questo ambito semantico della lingua inglese, a un certo punto, ha cominciato a identificare più o meno segretamente chi quell’anomalia la viveva nell’espressione del proprio genere, nella propria sessualità e affettività amorosa. Naturalmente una simile identificazione nasceva con un senso poliziesco e d’insulto: non a caso si dice che il primo uso di queer con il significato di omosessuale (in tono dispregiativo e violento) sia quello di una lettera infamante letta pubblicamente al processo che, nel 1895, portò alla carcerazione e poi alla morte di Oscar Wilde. Quando, negli anni immediatamente successivi, Virginia Woolf inizia a usare quella parola (per esempio in una lettera bellissima a Vita Sackville-West, o in Gli spilli di Slater non hanno punta, come mi ha mostrato la sua traduttrice Chiara Valerio), queer è dunque sulla soglia tra significati letterali e metaforici. Suggerisce comunque, nel vocabolario gergale anglosassone, una stortura, un’obliquità, una trasversalità; ennesimo eufemismo nemmeno troppo velato per riferirsi a tutto quello che eterosessuale, cioè diritto, straight, non è".

In italiano esiste una parola così?

Spiegava sempre Murgia che: "Non esiste un termine italiano che sia in grado per ora di riprodurre i significati di queerness, ma credo che ci si possa avvicinare a una spiegazione abbastanza chiara ragionandoci senza pigrizia. Se dovessi proporne una direi che la queerness è la scelta di abitare sulla soglia delle identità (intesa come maschera di rivelazione di sé), accettando di esprimere di volta in volta quella che si desidera e che promette di condurre alla più autentica felicità relazionale. C’è un prezzo da pagare quando tale scelta, nel suo mutare, ci conduce fuori dai limiti dritti e definenti delle norme. Per questo la queerness è sempre radicale, specie quando sembra una soluzione di comodo. Per questo genera sempre una comunità, specie quando sembra una forma di individualismo. Per questo cambia con chi la abita".

E se la stessa parola inclusione fosse una gabbia?

Conclude Murgia, e questa è davvero la sua ultima intervista (postuma):"Certo, ci si può dire gay o lesbiche essendo queer, ma non ci si può dire queer aderendo al pensiero del binarismo o all’aspirazione di ampliare, senza criticarlo, il significato di normalità. In questo senso è vero che non include: ci mostra anzi che il concetto di «inclusione» rischia di essere problematico quando imprigiona, annette, ingloba, colonizza, fagocita in una norma. Includere viene dalla stessa radice di chiudere, e nella mia terra un re colonizzatore ha introdotto la proprietà privata con l’Editto delle chiudende che, per via di improvvisi muretti a secco in campi prima comuni, ha distrutto comunità e ricchezze condivise, staticizzando una nazione che prima era più libera sebbene già inclusa in un altro Stato. L’esperienza queer ci insegna che il problema di fondo è proprio la normalità in sé, e che nulla in realtà si definisce del tutto in termini binari di qua o di là rispetto a un confine invalicabile come un muretto a secco".
 
La protagonista di Dare la vita è la parola queer.