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Mangiare tanto per colmare un vuoto o morire di fame: parla chi soffre di anoressia, binge-etating e bulimia

Per capire meglio i disturbi alimentari, il modo migliore sono le testimonianze dirette, che vi proponiamo, ringraziando i centri di Regione Liguria per aver condiviso queste storie

 

Foto Ansa e Instagram @ariannadavidreal

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Si fa presto ad ascoltare i professoroni, che – per carità- dicono cose giustissime – ma spesso su questi temi teoria e pratica sono due rette parallele che rischiano di non incontrarsi mai. Ma, forse, per capire meglio i disturbi alimentari, il modo migliore sono le testimonianze dirette, che vi proponiamo, ringraziando i centri di Regione Liguria per aver condiviso queste storie, sui social e in una conferenza stampa, mai così vera, mai così utile, mai così convincente.

E partiamo da Carla, che è il profilo più “disorganico” di tutti, a far capire che non c’è età per i disturbi del comportamento alimentare: “Ho messo a fuoco che avevo un problema alla mia veneranda età di 70 anni. Sono stata seguita dalla psicologa, dalla nutrizionista, da un team di sette persone che hanno affrontato il mio rapporto col cibo, che effettivamente era il nodo essenziale: nel mio caso troppo, ero ammalata di cibo. Mi hanno dato solidarietà, ma soprattutto attrezzi e mezzi per capire il rapporto giusto col cibo e tutto quello che avevo sbagliato fino adesso, mangiando tanto per colmare un vuoto. A 70 anni va un po’ meglio: analizzare il comportamento alimentare, ciò che è sul tavolo, come mangiare e cosa, e come colmare il vuoto. Nessuno me l’aveva mai detto, ora saperlo è la giusta medicina”.

Martina ha 25 anni, è di Genova, mora, bella, maglione fucsia, racconta: “Sono stata malata di anoressia e ad oggi posso parlarne al passato. Tutto è iniziato nel primo lockdown, inverno 2020, e la convivenza così stretta con me stessa ha fatto emergere fragilità che non erano così piccole: mi ha portato ad ammalarmi di anoressia nervosa. Non l’ho scelta come non si scelgono altre malattie, ma sono subentrati schemi che mi hanno portato alla decadenza non solo fisica, ma anche mentale. Sono stata fortunata perché ho avuto un supporto enorme dalla mia famiglia e presto la consapevolezza di avere un problema. Quindi ho affrontato la malattia in tempi brevi e non è una fortuna che hanno tutti. Sono stata in day hospital al San Martino di Genova per l’alimentazione artificiale e poi al centro per i disturbi sull’alimentazione al Santa Corona di Pietra Ligure, dove mi hanno dato assistenza alimentare e psicologica. Inizialmente ero molto sconfortata e convinta che non ne sarei mai uscita e non ce l’avrei mai fatta”.

Il punto è che non pare nemmeno brutto, come per tutte le dipendenze: “Ti si crea una zona di comfort, che non è vita, ma sopravvivere, è la cosa più difficile. Occorre rendersi conto che gli operatori non combattono contro di te, ma contro il mostro. Ma non si capisce e si prende tutto male. Sono andata a cercare profili di ragazze che erano come me e che sui social raccontavano che ce l’avevano fatta; ho scritto a una di loro a tempo perso e mi ha risposto parole di speranza. E’ importante ascoltare i medici, ma anche e soprattutto la testimonianza di chi c’è passato. Proprio per questo sono onorata di far parte di un gruppo di mutuo aiuto, sentire il racconto di chi ci è passato è un valore aggiunto per chi è nella tua situazione”.

Giulia ha i capelli rossi, una maglia grigia, è una bella ragazza e racconta: “Tutto è iniziato alle medie, ma in tutti gli anni passati non mi ero mai preoccupata della situazione, perché avevo un peso abbastanza stabile e lo ritenevo un problema secondario e non così importante. Poi mi sono resa conto che avevo iniziato a smettere di mangiare e perdevo chili su chili, i pantaloni non mi andavano più, ero talmente dimagrita che dovevo acquistarli nel reparto bambini per quanto peso avevo perso. Le persone accanto a me si resero conto, ma se ne rendono conto solo quando si rispecchia in problemi fisici. Ma non è solo questo: io soffrivo di depressione e ansia, avevo attacchi di panico continuamente e tutto questo si riverberava sulla mia alimentazione, non mi piacevo, smettevo di mangiare, volevo perdere sempre più peso. Quando mi sono resa conto che avevo toccato il fondo e non avevo più il controllo della mia vita, sono arrivata al Santa Corona tramite psichiatra. Non ero io la mia malattia, ma c’era una parte malata in me. Non sono ancora del tutto guarita, ma sono a buon punto; la cosa più importante è ammettere di avere un problema e farsi aiutare, chiedere aiuto, perché per quanto pensiamo, da soli è più difficile, quando non si ha più il controllo della situazione. Invece se sto guarendo è grazie a persone fantastiche come gli operatori del centro diurno”.

Michela ha vent’anni, i capelli biondi, ricci, occhiali, camicia bianca su jeans, come tante altre ragazze della sua età. Ed è un fiume in piena nel raccontare: “Sono una studentessa del dipartimento di lingue e culture straniere a Genova, mi ha sempre affascinato la voglia di conoscere e sperimentare per scoprire mondi. Oggi mi sento completa, soddisfatta delle mie scelte, delle persone che ho accanto, ma soprattutto libera. Nel 2020, invece iniziò l’incubo. Anoressia, binge-etating, bulimia, sono vere e proprie malattie che troppo spesso le persone sottovalutano, sminuiscono e confondono, mentre in realtà sono la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali. Nel 2020 maturai l’idea di cambiare l’idea che avevo di me stessa, ma soprattutto l’idea che gli altri potevano avere di me, quindi cominciai in maniera schematica molto rigida con qualche piccolo allenamento, ho cercato su internet spunti per cambiare il mio stile alimentare, finché non divenne una vera e propria ossessione: dovevo controllare ciò che dovevo assumere e ciò che invece dovevo assolutamente evitare e poco per volta divenni sempre più rigida e restrittiva con me stessa, finché si crearono in me proprio due parti, una malata e una sana, con la seconda che aveva sempre meno voce in capitolo in ogni decisione, persino le più banali, come uscire con un amica o andare per negozi. L’apice del problema, però, lo raggiunsi nel 2022, anno della maturità a cui dovetti dedicare molto studio e impegno ed ebbi l’opportunità di fare un Erasmus di un mese in Francia a Nizza in piena autonomia e indipendenza e lì seguii uno schema dettato dalla mia parte malata”.

Ricorda Michela, oggi pacificata e serena: “Mi ripetevo che non dovevo assumere più di quello che prendevo, finché riuscivo a camminare, a parlare, a muovermi, a svegliarmi, a dormire, a vivere e non avevo bisogno d’altro, senza nemmeno spendere soldi in alimenti. Al rientro in Italia, la grande paura, paura di uscire, di mostrarmi: avevo perso tanto peso e avevo raggiunto un obiettivo di magrezza tale da avere i fianchi stretti, gambe piccole, tutto piccolo. Ebbi paura e questa paura andò a influenzare molto la mia vita, faticavo a studiare, a concentrarmi, il cuore batteva talmente forte che dovevo fermarmi, ma soprattutto la sofferenza fu anche di rinunciare a guidare perché mi rendevo conto del pericolo che correvo con la possibilità di svenire e rischiare incidenti”. Fino alla svolta: “Un giorno però, alla fine del 2022, sentivo che avevo perso il controllo e l’eco della mia stessa voce che diceva: “E ora cosa facciamo? Non si può fare più niente, ormai è finita”. Iniziai a frequentare psicologi privati, i primi mesi furono durissimi, avevo paura, mi sentivo persa, soprattutto avevo paura del cambiamento di una routine che era andata avanti per troppo tempo. Nel marzo 2023 entrai al centro per i disturbi alimentari di Quarto, a Genova. Mi disperavo all’idea di perdere quella parte di me che era diventata tutto, Però, un po’ alla volta, aprii gli occhi e iniziai a vedere il mio corpo che cambiava, ma accettando il cambiamento, capii quante opportunità avevo perso nella vita per poter vivere con serenità i momenti dell’adolescenza, di una ventenne, senza lasciarmi prendere dalla paura e il supporto più grande che ebbi al centro furono le parole delle persone, mi sentii compresa per la prima volta, e capii la consapevolezza della vita e solo ora so che potrò godermela”.

Racconta, quasi urla, sussurrando, Michela: “Chiedere aiuto è difficile, ma è pregio non difetto. Ogni incontro al centro è stato una lezione, la consapevolezza di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Oggi, dopo tre mesi dalle dimissioni, sono in pace con il mio cuore, il mio animo, il mio corpo, ho finalmente ritrovato la spensieratezza di un’adolescente di vent’anni; la cura è stata la cosa più bella che potesse capitarmi. Mi hanno fatto sentire bella e valorizzata”. La malattia era il grigio, ora Michela ha visto i colori.

29/03/2024