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Mobbing, il lavoro che fa male nonostante la crisi

di Caterina Steri

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In un periodo in cui l’economia va a rotoli e avere un impiego costituisce un lusso, suona strano dire di star male quando si va a lavorare, eppure questo fenomeno è molto diffuso. Uno dei motivi di questo malessere è il mobbing,  una forma di “terrorismo psicologico” che viene esercitato all’interno dei luoghi di lavoro tramite attacchi aggressivi e ripetuti da parte dei datori, superiori e/o colleghi, nei confronti di un lavoratore. Si può manifestare con l’emarginazione, diffusione di maldicenze, critiche, assegnazione di compiti dequalificanti, sabotaggi e azioni illegali.

Lo scopo è quello di eliminare il lavoratore “scomodo” assillandolo psicologicamente e socialmente al fine di indurlo al licenziamento o provocarne le dimissioni. Può portare fino all’invalidità psicologica (tempo fa a Cagliari, l’INAIL ha parlato di “malattia professionale”).

Il mobbing causa problemi alla vittima, ma anche all’azienda su cui si ripercuote un calo significativo della produzione, soprattutto nei settori in cui viene esercitato.

Per parlare di mobbing si devono verificare per almeno sei mesi ed in modo continuativo, condizioni che limitano la libertà di opinione, forme vessatorie e lesive della dignità personale, maldicenze e condizionamenti negativi diretti o indiretti, dequalificazione professionale, uso strumentale e abusivo di richiami e sanzioni disciplinari, offese per supposta inadeguatezza alla professione, arroganza da parte di chi effettua il mobbing, e/o molestie sessuali sul lavoro, costrizione alle dimissioni o manovre irregolari che hanno lo scopo del licenziamento.

Il fine ultimo è sempre l’emarginazione del dipendente, la lesione delle sue sicurezze lavorative, psicologhe e sociali per metterlo in conflitto con se stesso e con chi gli sta attorno. Tutto ciò, ovviamente è sintomo di una problematica interna al luogo di lavoro, alla sua organizzazione, alla classe dirigenziale che non opera un’adeguata politica nei confronti della soluzione dei conflitti. Un fertile terreno  per questo fenomeno è la malsana competizione per il raggiungimento degli obiettivi.

All’inizio la vittima sottovaluta la situazione ed incredula  esprime il suo malessere con la protesta; poi inizia ad aumentare lo stato di vigilanza per avere conferme dagli altri e crede di poter gestire i soprusi e gli isolamenti. Aumenta in seguito la frustrazione e il disadattamento sociale e familiare, con comportamenti inadeguati e depressivi. Diventa incapace di far valere le proprie ragioni e può arrivare a pensare  di essere direttamente responsabile del proprio disagio. Vengono trasferiti nell’ambiente familiare i malesseri accumulati nell’ambito lavorativo.

Il mobizzato  esprime  disagio, nervosismo, mortificazione, tensione, ansia e aggressività, paura, ossessione, rabbia, voglia di vendicarsi, somatizzazioni e fobie, malanni e nei casi più gravi, invalidità cronica e tendenze suicidarie.

L’ideale sarebbe che il fenomeno venisse eliminato sul nascere, se non si è riusciti ad evitarlo, ma troppo spesso si innescano fenomeni di orgoglio, abusi di potere, errori di valutazione che cristallizzano il conflitto.

La soluzione stessa ha dei costi elevati, in quanto aumenta l’incertezza organizzativa dei soggetti e richiede una fase di ricostruzione delle relazioni per ricreare fiducia, motivazione e ottimismo.

Per prevenire il fenomeno occorre coltivare nell’ambito lavorativo un processo di arricchimento e consapevolezza tra le persone. Se si riesce ad interrompere lo sviluppo del mobbing si possono evitare problemi alla salute e alla produttività, molte cause giudiziarie, danni economici e sociali.

La vittima del mobbing deve sapere a chi poter rivolgersi. Di fronte a nuove condizioni ci si può trovare a disagio perché mancanti di esperienza per avere delle risposte adeguate. E’ utile sapere che nei vari territori sono dislocati dei centri specifici che trattano la problematica a cui si può chiedere un aiuto.

15/11/2011