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Cultural Paris: italiani e italiens a confronto

di Geporter Gourmet

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CULTURAL 2016.

Dopo l’anno zero presso il palazzo dell’Unesco, la manifestazione ideata da Mauro Bochicchio per fare conoscere oltralpe le nostre eccellenze gastronomiche ha tagliato il traguardo della seconda edizione. Per cornice il pittoresco Bastille Design Center, struttura dall’atmosfera d’antan che ha distribuito l’evento su tre gironi in legno.


 


 

Al piano interrato le conferenze dei cuochi, subito sopra e al primo piano gli stand dei produttori di delikatessen: salumi, per esempio del pugliese Santoro; conserve, vedi alla voce Maida; dolcezze come i torroncini Minuto; vini naturali (l’Armonia di Andrea Pendin e la straordinaria gamma di Francesco Guccione, fra gli altri). I margini di crescita sono notevolissimi per una manifestazione strategica, che mira a far conoscere e creare economia attorno ai nostri prodotti artigianali, contro le falsificazioni del made in Italy.


 

Sul fronte culinario, Bochicchio ha cercato le zone d’ombra di un panorama contrastato, dove i giovani non sono stati ancora intercettati dai riflettori. Quindi esponenti di spicco delle generazioni 20 e 30 anni, provenienti in larga parte da un sud arrembante, spesso al battesimo del palco e ancora deliziosamente impacciati. Si sono alternati ai loro omologhi emigrati a Parigi, nuova Mecca dei cuochi italiani, protagonisti di un filone bistronomico a parte. Ancora chiusi i ristoranti dei due geniali apripista, Giovanni Passerini, ripartito da un pastificio artigianale, e Simone Tondo, che ha traslocato il suo Roseval in uno spazio più grande, è toccato ad altri giovanissimi testimoniare come un diverso contesto possa influenzare la creatività, attraverso le leggi del mercato, la potenza dell’immaginario o semplici opportunità, darwinianamente.


Fotografia di Marco Varoli

Per esempio il lucchese Michele Farnesi, esponente della seconda generazione bistronomica italiana a Parigi, passato per una lunga esperienza alla Francescana prima di rivestire il ruolo di secondo dello stesso Passerini e rilevare il locale di Tondo, ribattezzato Dilia, una bomboniera tutta legno e lampadari di cristallo nel popolare quartiere di Ménilmontant, premiata come sorpresa dell’anno da Omnivore. “Il mio punto di riferimento? Valeria Piccini, per la toscanità di matrice contadina. Sono gusti che ricerco e che qui esercitano una forte attrattiva. Ma non so se sarà bistronomia e se sarà Parigi per sempre. Qui la concorrenza è fortissima”. Sul palco ha portato un dessert: la dacquoise alle mandorle con crema al bergamotto, capperi confit e maggiorana, esemplificativa di una cucina che fra olandesi e bernesi strizza l’occhio agli indigeni. “L’ho scelto perché le tecniche sono francesi, ma i gusti sono nostri, così da mettere a proprio agio entrambi i target. Ecco cosa vuol dire essere un cuoco italiano in Francia”.


Fotografia di Marco Varoli

Oppure i sardi Nicola Pisu e Salvatore Ticca, chef patron di Shardana e Gallo Blu, alle prese con culurgiones filologici nella pasta, nella forma e nel ripieno di patate, pecorino e menta; originali però nell’arrostitura in stile orientale. “Ma si tratta di tradizione, perché una volta in Sardegna i culurgiones venivano cotti sul bordo del caminetto, una tradizione che si è persa e che stiamo cercando di recuperare. Una signora ha avuto una reminescenza della sua infanzia e ha riproposto la variante al figlio, cui i ravioli lessi non piacevano. Da qui il piatto. Fare cucina italiana a Parigi non è facile, perché viene spesso fraintesa e mortificata da ingredienti improbabili, mentre noi ci divertiamo ad affiancare a portate creative i classici di sempre, eseguiti come tradizione comanda, con le materie prime che facciamo arrivare da casa”.  E ancora Gennaro Nasti con le sue pizze al top su Parigi.


Fotografia di Marco Varoli

Carte che si sono rimescolate con i nostri assi, intervenuti in massa proprio nel momento in cui ricomincia ad allignare la nostalgia per mamma Francia, eletta a meta di stage ed esperienze professionali come non accadeva da decenni. Un amore corrisposto, considerata la diffusione di esercizi italiani o italian sounding nella capitale. A rompere il ghiaccio è stato Eugenio Christiaan Boer del ristorante Essenza, che ha puntato come tanti colleghi sulla pasta, mai così in voga. Quindi burro congelato grattugiato alla base del piatto, fusilli alla colatura, per ricomporre il binomio del crostino, e una cascata di peperoni cruschi per la sensazione di peperone ripieno o di bagna cauda, ma anche per il crunch di una spolverata di mollica tostata.


Fotografia di Marco Varoli

E poi Christian Milone della Trattoria Zappatori, intimista ed elegante come non mai, con la finissima filigrana aromatica delle sue ruote alla riduzione e polvere di cime di rapa (ne occorrono 600 g a porzione), pane croccante all’estratto di geranio e olio al limone. Fra i piatti migliori della manifestazione.


Fotografia di Marco Varoli

Né poteva mancare, per ricomporre il trio delle meraviglie, Giuseppe Iannotti del Kresios, che ha diretto la bussola a Oriente. Quindi il suo rivoluzionario katsuobushi di vitello, ricavato classicamente per marinatura, affumicatura ed essiccazione nell’arco di 8 mesi. Se ne ottiene per infusione un liquido che miscela Giappone e Italia, il ricordo di un brodo a quello di un dashi, potenza ed eleganza, giocando sullo schema del vitel tonné.


Fotografia di Marco Varoli

In gran spolvero anche Angelo Sabatelli, in corso di trasferimento a Monopoli, che ha ricamato sul pancotto, ricetta della Puglia settentrionale più che mai attuale in questi tempi di botturiano scarto zero. Quindi un tozzo di pane raffermo inzuppato e croccantato al forno, cosparso di polveri diverse e servito su una crema di fagioli al miso, più olio alla cicoria e farina di ceci. La memoria pugliese passata per la cruna della contemporaneità, in dialogo serrato con il Camouflage di Massimo Bottura e la Zolla di Certosa di Paolo Lopriore, perché ogni piatto è fatto di altri piatti, come insegnano le arti belle.


Fotografia di Marco Varoli

E poi Vitantonio Lombardo, stella lucana della Locanda Serafino, con un omaggio alla Francia chiamato Mela-gras: un “foie gras” terroiriste a base di fegatini di pollo, riduzione di Fiano passito e burro, per l’eleganza e il grasso mancanti, rivestito come un pomo di gelatina acidula alla mela annurca. Seguito dalla guancia di maiale con salsa di amaro lucano, maionese e peperoni cruschi su letto di polenta, dove il territorio si conferma un riferimento ineludibile per i nostri giovani chef.


Fotografia di Marco Varoli

Ancora sud con Cristoforo Trapani della Magnolia di Forte dei Marmi, che ha rielaborato creativamente due icone campane. Il carciofo di Schito selezionato dai genitori fruttivendoli e arrostito a mo’ di street food, assurto all’alta cucina previa cottura sottovuoto, passaggio al cannello, farcitura con cremoso di lardo di Colonnata, per la fusion con la Toscana, e spugna di prezzemolo; più le foglie bruciate al tavolo per evocare la sensazione della brace. In equilibrio grasso/amaro. E il delizioso predessert di rigatone trasmutato in cannolo, degno finale del menu tutto pasta, farcito di ricotta di bufala con una nevicata di mozzarella disidratata al posto del Parmigiano, lo sciroppo di pomodoro e qualche fogliolina di basilico per la freschezza.


Fotografia di Marco Varoli

Altro scenario, stessa territorialità per Oliver Piras e Alessandra Del Favero di Aga, sulle Dolomiti. Anche loro hanno puntato sulla pasta secca, nella fattispecie una linguina al kamut risottata nel succo di due varietà di mirtilli, la cui acidità eguaglia al piaccametro un camone sardo, con polpettine di salsiccia cruda di Bra e una spolverata amara di luppolo. Il remake avanguardista di uno spaghetto al pomodoro e salsiccia sardo. E poi il “nigiri” di trota marinata su brandade di trota con estratto di alloro e panna al rafano, esemplificativo della svolta giapponista maturata nel corso di una recente vacanza, con la sua forma orientale farcita di prossimità.


Fotografia di Marco Varoli

Last but not least Floriano Pellegrino del ristorante Bros di Lecce e il suo tentativo di “concettualizzare il territorio”. Per esempio attraverso il pomodorino candito con fiori e spezie e tuffato in acqua di ricotta scanta, contrastato ed essenzialista in stile Roca. Oppure nel porro arrostito, monografia dal vivace gioco di testure grazie alla tapioca nuovamente al porro e al prezzemolo fritto.

Autrice: Alessandra Meldolesi

La fotografia di copertina è di Marco Varoli

08/04/2016