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La mossa del cavallo: Oliver Piras e Alessandra Del Favero avanzano a San Vito

di Geporter Gourmet

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DUE PASSI

in orizzontale e un passo in verticale, con la possibilità di sorvolare qualsiasi altro pezzo sulla scacchiera, che si tratti di alleati o avversari. È la mossa del cavallo: una diagonalità fulminante, che secondo alcuni custodisce il segreto della scrittura poetica, tanto più efficace quanto più è obliqua nel perseguire i suoi scopi. Come il cavallo, il poeta si muove di fianco perché la via diretta gli è preclusa; ed è così che Oliver Piras e Alessandra Del Favero stanno avanzando sulla scena gastronomica italiana dalla casella di Aga, minuscolo ristorante intitolato all’acqua, dentro l’hotel Villa Trieste di San Vito.


 


 

I tavoli sono appena quattro, fra pareti di legno montanare, in un’atmosfera raccolta che sembra incubare il sogno, virale da una parte all’altra del pass. Tutto è possibile: perfino che una coppia di ragazzini in un solo anno assembli un palmarès da primato. Chef emergenti per Luigi Cremona e per il Gambero Rosso, big di domani per il Touring Club, stellati Michelin 2016. In cucina hanno un unico aiuto, a curare non solo Aga, ma tutta la ristorazione dell’albergo, di proprietà dei genitori di Alessandra: appena finita la pensione, tuona il coup de feu gastronomico. Con i due cuochi che coadiuvano il sommelier in sala, nel tentativo di decifrare la propensione al rischio degli ospiti. I menu a sorpresa sono due, da 5 e 8 portate, a 65 e 85 euro, più una carta assai scarna, con tre proposte per portata, fra cui una dedicata ai “palati più classici”.


 

La forza di Piras sta infatti nella stratificazione stilistica: fra gli under 30 il suo curriculum brilla per originalità e completezza. Dopo Roberto Petza e Alberico Penati, ci sono stati due anni di Joël Robuchon a Londra, fondamentali per le basi di una cucina che continua a passare le sue carni in padella, secondo i riti della scuola francese. A seguire quasi quattro anni di Vittorio a Brusaporto, spesi a investigare la materia pesce con Chicco Cerea.


 

“Sono stati importantissimi per la cucina e perché ho conosciuto Alessandra, capitata in stage dopo Alma. Qualunque ristorante mi incuriosisse, Chicco alzava la cornetta e potevo partire. Così sono arrivato al Celler de Can Roca, che mi ha colpito soprattutto per la pasticceria, e al Noma, fondamentale per la valorizzazione dei vegetali, la tecnica della fermentazione, l’originalità del dressage”. E ancora due stagioni al Rosa Alpina di Norbert Niederkofler, per familiarizzare con il territorio e i suoi giacimenti spontanei. Esperienze che non hanno inciso più di tanto sulla tavoletta dello stile, se non attraverso l’ampliamento dei riferimenti.


 


 

Gli esordi hanno avuto il lampo dell’aurora boreale, un po’ per le caratteristiche del terroir, selvaggio e incontaminato come la Sardegna dove è nato Piras; un po’ perché era il modo più immediato per attirare critica e gourmet. Ma l’assestamento è in corso, anche grazie a un viaggio in Giappone: “Abbiamo ritrovato nel cibo di strada quello che in Spagna o in Danimarca credevamo innovazione. Ma già da Robuchon e da Vittorio avevamo avuto un’infarinatura orientale. E da Ryugin è stata una folgorazione, per i brodi e per la pulizia. Stiamo ancora investigando tecniche e ingredienti, come la fermentazione mediante aspergillus koji e una variante della colatura alle alghe. Ci siamo caricati di stoviglie artigianali, comprate per strada e spedite in Italia”. 


 

Prosegue anche la pista del foraging, intrapresa con un docente dell’Università di Firenze e proseguita con un membro della Forestale; hanno aiutato a catalogare e riconoscere 40 erbe spontanee, trapiantate in vaso, e un bouquet di bacche alpine. La raccolta in stagione viene svolta da Oliver e Alessandra, un’ora al giorno tutti i pomeriggi. A partire da maggio c’è anche l’orto ai piedi delle cime, coltivato in prima persona, con il supplemento di un’azienda agricola di Vodo di Cadore. La stagionalità è rigorosa, come la prossimità, o meglio l’opzione per l’altitudine: i pesci per esempio sono tutti di acqua dolce, “uno stimolo alla riflessione, perché il loro gusto delicato richiede finezza o va spinto attraverso la marinatura. E se dobbiamo scegliere un cereale, privilegiamo l’amaranto o la pasta secca di Felicetti, che viene prodotta in montagna. La stessa carta dei vini ha una pagina dedicata all’alta quota, dalla Sicilia alla Valtellina, passando per qualche Chianti”.


 

Nei piatti, alla fine, manca qualsiasi tentazione fusion: la ricorrente deviazione giapponista finisce per enfatizzare l’italianità di una cucina abbarbicata al territorio, ricreando attraverso note esotiche sensazioni alpine di affumicato, comfort food e balsamico durante tutto il pasto. Italiani sono i gusti e italiana è la sequenza, che culmina nei primi piatti. Ed è questa la mossa del cavallo, con le sue strategiche derapate a Oriente, che rende originale un percorso “classico” nelle cotture e nell’equilibrio gustativo. Tanto impeccabile quanto creativo nel bilanciare rotondità e sensazioni cutting edge, quali tannicità, scossa elettrica, zolfo.


 


 

Gli appetizer descrivono subito una traiettoria obliqua. La carota in carpione, per cominciare, monografia a scarto zero composta come una tartina di radice cotta sotto sale e spolpata: sopra la pelle seccata e soffiata si alternano il carpione “classico” delle estremità e la tartare della polpa. Oppure la Caesar salad, concepita in aeroporto e composta anch’essa, ironicamente, come una tartina, con la pelle del pollo croccante, l’uva spina fermentata per l’acidità, le uova di trota per la sapidità e una nevicata ariosa di mousse di cosce congelata a simulare il Parmigiano.


 


 

Il ramen porta la classica liquidità calda in apertura; quindi il brodo di formaggio Piave con pepe rosso affumicato e noodles di sedano rapa, finissimi spaghetti ricavati con la macchina giapponese, bolliti brevemente e marinati in acidulato di umeboshi e zafferano. Dell’originale cade l’esuberanza, ma resta il gesto della ciotola. E ancora la deliziosa perla di manzo crudo, farcita con una gelatina di tè affumicato lapsang souchong e cervello di vitello spadellato a legare, più una foglia di tagete in sommità per un ricordo di pesca. Dove esce nitida la ricreazione del territorio attraverso spunti orientali.


 

Arrivano a questo punto in tavola il burro montato di alpeggio e l’olio di Conegliano Veneto, accompagnati dal pane: grissini e pagnottine di farina integrale di farro e frumento, preparate per idrolisi con lievito madre in coltura liquida, scarsamente acido.


 


 

E il primo antipasto vero e proprio, molto articolato nella composizione: la rapa di Chioggia appena scottata e proposta a nastro, come una rosa con lamelle di mela verde, foglie di coriandolo, caviale e polvere di radicchio. Il ricordo di una classica entrée di Joël Robuchon, composta di mele e indivia belga e condita con la sapa, che finisce per approdare a Oriente grazie a una spruzzata di estratto di zenzero. La sensazione è quella dei pickles serviti con il sushi, dove il caviale ripesca l’elemento ittico e bilancia con la sapidità la tendenza acida.


 

Eccellente anche la trota, appena marinata nel sale di Guérande per rassodare la polpa e adagiata sulla brandade di trota marinata in vino e aceto di riso con patate, ben condita con olio infuso alle braci per la nota di barbecue. Un nigiri italiano, rifinito dal centrifugato di alloro e da una spuma di rafano selvatico, che sposa al piccante sulfureo una lieve tannicità, in modo da riequilibrare la grassezza e rimpiazzare il wasabi.


 

I primi piatti sono più leggibili nei loro riferimenti alla tradizione italiana. Per cominciare i ravioli, la cui farcia verticalizzata si compone di 3 g di testina lessa lavorata con la senape per la testura sontuosa, 4 g di zucca ben caramellata al cartoccio e 1,8 g di purea di prugna fermentata per l’acidità e il richiamo alla mostarda sul bollito. Rigore tarato al bilancino per un’esplosione di grasso e dolcezza, che viene esaltata anziché mitigata dal contrasto con la mezza foglia di shiso verde e il dripping di Amaro del Cadore, ridotto per eliminare parte degli zuccheri e favorire la presa sulla sfoglia. La sensazione è quella di un burro e salvia d’avanguardia, dove il grasso è rimpiazzato dall’alcol, in equilibrio visionario grazie all’amaro vegetale.


 

Non da meno le linguine, portate a cottura in un succo di mirtilli rossi e neri, le cui proporzioni riproducono l’acidità del pomodoro: 1,9 al piaccametro. Il modello è quello di una pasta alla salsiccia, cruda e di Bra, con la spolverata di luppolo a mo’ di spezia, che asciuga con la sua astringenza il circolo della salivazione acida e della succulenza.


 

I secondi sono più lineari. Molto ardito il salmerino, servito con capperi di sambuco, per la sapidità e l’acidità, e un brodo concentrato di petali di rosa secchi, la cui tannicità scartavetra la grassezza del filetto, spadellato con l’origano.


 


 

Mentre il petto di faraona è passato prima in padella sulla pelle, poi sul barbecue lato polpa per la nota affumicata, infine per 35 minuti dentro un fornetto a bassa temperatura stile holdomat, in modo da ridistribuire i succhi. Viene tuffato con le cime di rapa saltate in un corroborante brodo di faraona infuso alle bacche di stropacù, simili a rosa canina ma più aspre, e alle radici di abrotano, per una sensazione finale quasi di curry indiano. “Ci stiamo concentrando sui brodi, che sono tipici delle tradizioni cadorine e della cucina di montagna in generale. Guardando alle tecniche coreane”.


 

Non è un secondo, ma un predessert il delicatissimo cuore di manzo, scottato sulla padella di ferro e poi lasciato riposare nel fornetto succitato per almeno mezz’ora, fino a ottenere una testura asciutta e compatta. Mitigato nell’ematico dalla salsa ponzu, leggermente acida, viene guarnito con cime di rapa brasate, in estratto e in foglia essiccata, più un dripping di estratto di pepe di Sichuan, la cui scossa elettrica anestetizza quasi il palato, resettandolo in preparazione del dolci.


 


 

La frolla montata con crema pasticciera all’acqua tonica e gelato al pino mugo, per cominciare, con il suo ricordo di un gin tonic di alta quota; più il kiwi candito per l’acidità e una coltre rassicurante di zucchero filato. E poi il gelato di pepe nero di Sarawak, ripulito dall’acidità della spuma di pere acerbe e dalla freschezza dell’estratto di levistico, con la sua leggera tendenza amara, al riparo di una cialda di caramello.

17 gelato al pepe nero

 

Autrice: Alessandra Meldolesi

Tutte le fotografie sono di @Aromicreativi

 

Ristorante Aga

Via Trieste 6 -32046 San Vito di Cadore (BL)

Tel: +39 0436 890134

Mail: info@agaristorante.it

http://agaristorante.it/

29/03/2016