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Villa Maiella: il futuro di un passato

di Geporter Gourmet

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GUARDIAGRELE,

sulla via della Maiella. Sassi grigi in mezzo alle radure, fra cui ululano i lupi e corrono i cinghiali, qua e là qualche grappolo di pietre strette attorno a una chiesetta. Silenzio e un sentimento che qualcuno chiamerebbe “sublime”, tanto è maestosa la natura e bruto lo skyline a paragone del civico 30 di via Sette Dolori, che su di essi lascia scorrere i tourniquet delle sue porte. Un palazzo bianco, squadrato, moderno, che non farebbe presagire alcunché. Ma passata la reception dell’albergo immette negli spazi ovattati di un ristorante che ha operato un piccolo miracolo gastronomico. La terrazza aperta sulla valle dove calare i panieri per la spesa.


 

A Villa Maiella non si arriva per caso, ma finita l’interminabile cantilena del navigatore. Al di fuori di qualsiasi coordinata temporale, per quanto il registro delle imprese reciti: 1968. Fu allora, in piena contestazione studentesca, che mamma Ginetta mescé il primo vino a un operaio della vicina fornace, oppure del mulino dove sudava anche il marito Arcangelo, presto cooptato nelle fortune della fiaschetteria. La quale pian piano compì la sua metempsicosi in trattoria, via via che i clienti richiedevano qualche morso di cucina. E poi in ristorante nei primi anni ’90 con l’ingresso di Peppino, passato dai banchi dell’Alberghiero ai fornelli di Cipriani a Venezia, coadiuvato dalla moglie Angela, che si occupa tuttora delle paste.


 

È stato lui, nel 2009, a conquistare la stella Michelin e soprattutto, nello stesso anno, a dare il via al restyling della struttura, espansa in senso neorurale grazie all’impianto dell’orto con l’uliveto e soprattutto agli allevamenti. Gli ettari di proprietà attualmente sono una decina. Vi scorrazzano allo stato semi-brado i suini neri abruzzesi, nutriti in gran parte con gli scarti del ristorante secondo un ciclo che si chiude a tavola, di fronte all’imperdibile piatto di salumi serviti in antipasto o alle carni fresche, rosse come una bistecca e ben marezzate che seguono il rito della maialata. Senza approssimazioni, visto che a seguirli fino al macello è una veterinaria, che sta studiando diverse linee di alimentazione ad hoc. Ma ci sono anche le galline per le uova e una mandria di asini, che tiene pulito il terreno ma presto scalcerà anche in carta, secondo le usanze locali.


 

“Il filo della tradizione si è spezzato: noi dobbiamo scoprire il passato da soli”: deve aver pensato qualcosa di simile a Hannah Arendt, Peppino, quando ha compiuto questo passo. Sempre più in difficoltà nel procacciarsi materie prime genuine e soprattutto territoriali, “la qualità vera e costante, indipendente dalle vicissitudini di un contadino, nel pieno rispetto dei ritmi di crescita, del fabbisogno nutrizionale, degli spazi necessari al comfort degli animali”. Cosicché ha deciso di prodursele da solo. E questo ha propiziato un’intimità crescente col prodotto, che ha finito per ispirare la cucina attraverso i gesti quotidiani nei campi. Ne è conseguita anche l’abitudine di utilizzare l’animale intero, tornando a un’artigianalità della cucina ormai perduta. “Ho imparato i segreti della norcineria da un compare di mamma, capo di una cooperativa di allevatori e macellai a Guardiagrele. Ma già papà per la trattoria allevava una quindicina di maiali: quando tornavo da scuola il venerdì sera d’inverno ce ne occupavamo insieme. Da queste parti ci sono sempre stati, in ogni casa”.


 

Nel frattempo il figlio Arcangelo, oggi trentenne, non stava a guardare, ma iniziava a scalpitare in un ristorante per certi versi affine, dopo un tentativo infruttuoso da Troisgros: quello di Bras a Laguiole, evoluzione della brasserie materna. Si rispecchiava così in una famiglia impegnata in un’altra transizione, da Michel a Sébastien, dentro un territorio altrettanto selvaggio, dove il sublime si rovescia nell’infinito orizzontale dell’Aubrac, il “deserto verde”: un santuario senza muri per la cucina contemplativa. “Il curriculum lo portai di persona, perché mi vergognavo di quell’unica riga: Villa Maiella. Quindi mi sono presentato e ho iniziato direttamente come chef de partie alle carni, dopo una breve prova, fino a rivestire il ruolo di responsabile anche dei pesci. Nemmeno parlavo francese e certi nomi mi sfuggivano, oignon e agneau, per dirne una. Ma ho ritrovato casa, per esempio nella riduzione degli scarti, come voleva nonna Ginetta, e in generale nella concretezza della cucina. Tutte le mattine raccoglievamo 250 tipi di erbe aromatiche, poi è arrivato anche l’orto. E lavoravamo soprattutto di padella, senza ricorso al sottovuoto se non per il pollame, perché quello era lo stile. Insegnamenti che ho cercato di non imitare ma di tradurre nel nostro territorio, soprattutto nel senso del rigore”. Il motto di Arcangelo è infatti maîtriser, ridurre il margine di errore per una costanza nell’esecuzione.


 

Il fratello Pascal, dal canto suo, più vocato per la sala, passava dagli spogliatoi dell’Auberge de l’Ill a quelli del Pescatore, indirizzo che tanto ricorda le atmosfere familiari e bucoliche di Villa Maiella. La sua carta dei vini, molto corposa, pesca dentro un territorio in fermentazione tumultuosa, del quale ha essa stessa alimentato la montata; con belle pagine francesi, soprattutto sul fronte dello Champagne, passione del sommelier. Accompagna due menu degustazione: La nostra proposta, con 7 portate d’autore a 65 euro, e Il menu del territorio, che ne comprende 5 a 45, più 25 e 15 euro per i rispettivi abbinamenti.


 

Le sensibilità di Peppino e Arcangelo si alternano nel pasto, con momenti di autentica dearcheologizzazione frammisti a portate contemporanee, ma trovano il loro collante nel prodotto e nel territorio: la costatina di agnello alla brace per esempio è immutata, ma rigorosa nella selezione del prodotto e nell’esecuzione. “Fin dai primi anni è stato difficile proporre cotture corrette, perché da queste parti c’è sempre stata la tradizione della bassa macelleria, con le carni di seconda scelta, ricavate da animali sofferenti, prossimi al decesso o appena morti, proposte a un prezzo inferiore e sottoposte per ragioni di salubrità a cotture estenuanti”, racconta Arcangelo. “Io però, avendo battuto grandi ristoranti fin da piccolo insieme a papà, da Don Alfonso a Caino, sapevo che erano un errore. Così pian piano siamo riusciti a convertire i clienti. E potrei fare molti altri esempi”. Laddove non basta l’autoproduzione, suppliscono il mercato locale e gli allevatori del posto, con l’eccezione del vitellone bianco marchigiano. Né mancano in stagione i prodotti spontanei, per esempio il finocchio selvatico tanto caro a Michel Bras, sul baccalà.


 

Si comincia con l’aperitivo della casa: un Trebbiano d’Abruzzo vinificato in acciaio e aromatizzato a freddo agli agrumi in stile Campari, con il bordo del calice passato nelle polveri di arancia, limone, cedro e bergamotto. “Lo proponiamo perché è territorio, al contrario delle bollicine che qui mancano”, commenta Pascal. Accompagna un rustico appetizer di uovo e cipollata, scortato da tre pani: di solina, allo zafferano e integrale ai semi di lino, più l’olio della casa da cultivar gentile di Chieti.


 

Gli stagionati di maiale nero sono un must. Comprendono guanciale, lardo, capocollo, salsiccia morbida e stagionata di spalla, salsiccia di fegato, con un panino ai ciccioli in accompagnamento. In alternativa un altro piatto di Peppino: le pallotte cac’ e ove, dalla testura straordinariamente spugnosa, che si imbibisce di salsa di San Marzano fatta in casa. Il modello è quello della tradizione: un piatto di recupero nato portando le croste vecchie e dure in drogheria; ma l’esecuzione è impeccabile grazie alla montata degli albumi, che regala una sensazione di babà salato. “Una ricetta che non cambieremo mai, perché deve restare così”, assicura Arcangelo.


 

Fra gli antipasti anche il carpaccio di controfiletto di vitellone bianco, marinato con caffè, cacao, mandarino e cumino montano, dove lo spunto è l’inversione della sequenza del pasto, ma il tostato finisce per rimpiazzare la cottura. Un piatto dove il padre e il figlio dialogano, sulla falsariga del classico di Cipriani, con tanto di maionese, ma orientaleggiante secondo gli insegnamenti di Michel Bras, visto che l’aromatizzazione è allo zenzero, nitidissimo grazie all’uovo bazzotto. Completano il gioco delle acidità e del piccante in sordina gocce di olio al peperoncino e un petalo di begonia. Eleganza e riflessività: il piatto del giorno e l’avvisaglia della raffinatezza che si va profilando a transizione ultimata.


 

La patata farcita di patata con acciughe e pecorino su crema di aglio rosso di Sulmona è un inno datato 2015 ai sapori gagliardi del territorio, che si spingono un po’ più a sud nei ravioli di burrata con salsa di zafferano, polvere di pomodoro e lenticchie di Santo Stefano croccanti, la cui sontuosità meriterebbe forse un contrappunto acido. “Un classico di mamma”.


 

Rovistano invece nel baule della memoria gli gnocchi di pane di solina con acciughe e cavoli dell’orto, antica specialità messa a fuoco nelle testure, che rispolvera il registro della neotrattoria di lusso. “Un altro piatto di recupero del pane raffermo, tipico dell’entroterra, sempre intorno alla Maiella. Lo abbiamo messo a punto tutti insieme, partendo dalle descrizioni dei vecchi, perché non ci sono codificazioni, e cercando di correggere il morso, più importante dell’omologo di patate; lo guarniscono contorni di stagione dal gusto persistente, capaci di tenergli testa”.


Sfoglia grezza con ragù di cinghiale

Il calamaro, molto semplice ma centrato nelle cotture, è proposto alla brace di carbone con crema e foglie di rape. “Personalmente non amo i cefalopodi quando sono troppo fondenti. C’è quindi un primo processo in cui lasciamo temperare il cefalopode sulla parte più fredda della brace, per fare salire la temperatura, poi lo passiamo al centro per la caramellizzazione e il tono fumé. La crema di rape serve per portare la grassezza, con l’olio al peperoncino, e facilitare la masticazione. La foglia invece è fritta, in modo da riprendere il croccante del tentacolo”.


 

Per carne segue la battuta di agnello travestita da cotoletta, ben rosata al cuore e molto piacevole nella testura, dove la panatura è un cavallo di Troia: “Ricordo che un giorno ci venne a trovare Vittorio Fusari, rimase entusiasta della qualità dell’agnello ma non riusciva a spiegarsi il punto di cottura avanzato. Da qui l’idea di proporre la tartare mascherandola, in modo da farla accettare al cliente”. Viene servita con fonduta di pecorino, salsa di pomodoro al timo e crema di spinaci.


 

Anche il dolce è territorio: dopo il predessert di gelato di zucca e torrone di Guardiagrele, particolarmente secco e speziato, arriva in tavola il parrozzo di dannunziana memoria, proposto in versione semifreddo alle mandorle con riduzione di cacao, per correggere la testura asciutta dell’originale e riproporre la filosofia del recupero.

Autrice: Alessandra Meldolesi

 

Ristorante Villa Maiella

Via Sette Dolori 30 – 66016 Guardiagrele (CH)

Tel. +39 0871 809319

Mail: info@villamaiella.it

Il sito web del ristorante Villa Maiella

15/02/2016