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Diamanti sintetici, il lusso si fa etico senza perdere di fascino

Diamanti sintetici il lusso si fa etico senza perdere di fascino
di Stefania Elena Carnemolla

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Anche la De Beers, storico colosso della gioielleria mondiale, ha ceduto ai diamanti sintetici, guardati ancora con scetticismo da gran parte del mondo della gioielleria e delle pietre preziose.

Bruce Cleaver, ceo De Beers, ha spiegato il perché della scelta: “Offriremo ai consumatori un prodotto di laboratorio che ci hanno detto di volere, ma che non trovano:  gioielleria conveniente e alla moda, che magari non è per sempre ma è perfetta per questo momento”. Un cambio di passo alla conquista di una nuova fetta di mercato: si parla di 200 dollari per una pietra di un quarto di carato fino a 800 dollari per una da un carato e una produzione intorno ai 500 mila carati grezzi di diamanti sintetici ogni anno, blu, rosa e bianchi, “perfettamente identici” a quelli naturali.

L’idea di creare diamanti sintetici risale all’Ottocento, mentre la caccia su scala globale dei diamanti naturali nel frattempo segnava episodi di sfruttamento, esproprio di terre, fino ai blood diamonds, i diamanti insanguinati, quei diamanti, cioè, secondo una definizione dell’ Onu, che provengono da “zone controllate da forze o fazioni opposte ai governi legittimi e riconosciuti a livello internazionale e usati per finanziare azioni militari in opposizione a tali governi o trasgredendo le decisioni del Consiglio di Sicurezza». Ciò che nel 2000, a Kimberley, in Sud Africa, ha spinto, con il sostegno dell’Onu, a gettare le basi del Kimberley Process, un protocollo siglato da governi, industria diamantifera, organizzazioni governative, banche, settori del mondo finanziario, associazioni umanitarie, contro il commercio dei diamanti con i proventi usati per finanziare conflitti e guerre civili.

Ancora oggi il Kimberley Process prevede che nessun commerciante tagliatore o comunque appartenente all’industria del diamante possa ricevere partite di pietre che non siano accompagnate da un apposito certificato emesso dai singoli governi. Quando il Kimberley Process fu sottoscritto, entusiasticamente si pensò che potesse far rientrare nei confini dell’etica un commercio fatto più di ombre che di luci; ma lo scandalo che, tempo fa, in Brasile, ha investito membri di società diamantifere, affiliati alla mafia libanese, funzionari dello stato delle Minas Gerais, ha spinto a puntare il dito contro la reale efficacia di tale misura. Pesante, all’epoca, il capo di accusa: il sospetto è che fossero state esportate dal Brasile verso il Belgio, e grazie a certificazioni fasulle avallate da Luís Eduardo Machado de Castro, del Departamento Nacional de Produção Mineral, diamanti insanguinati.

È stata quindi la volta di una tecnologia laser, messa a punto in Canada dalla  Gemprint Corp. di Toronto, con cui intervenire sulla tavola superiore del diamante, registrando il disegno unico dato dai puntini di luce riflessa con cui ottenere le impronte digitali della pietra, quindi registrate su un apposito certificato (diamanti etici canadesi sono giunti anni fa, in Italia, nelle vetrine di una gioielleria di Milano).

Una novità arriva ora dal Giappone, dove la  Pure Diamond Co. Ltd, una società con sede a Tokyo, produrrà in laboratorio, utilizzando un materiale a base di carbonio puro, diamanti sintetici “chimicamente, esteticamente e visivamente” identici ai diamanti naturali e, pertanto, certificabili, dal Gemological Institute of America, l’istituto gemmologico americano. I diamanti, anticipa la società, saranno realizzati in un “ampio spettro di colori, compresi colori che non esistono in natura, il che può dare adito istantaneamente a un'inversione di tendenza nel mercato, per esempio, dei diamanti rossi e blu estremamente rari”.

L’altra novità riguarda una tecnologia Blockchain di tipo avanzato per l’identità digitale dei diamanti: “Le informazioni relative alla coltivazione, alla raffinazione e alla stima dei diamanti sintetici” spiega la società “vengono raccolte e digitalizzate creando un profilo accessibile dal consumatore finale, con conseguente accrescimento della trasparenza e miglioramento dell’esperienza di acquisto”. La coltivazione dei diamanti in laboratorio, anticipa la Pure Diamond Co. Ltd., contribuirà a trasformare su scala mondiale il settore dei diamanti “rendendolo più sostenibile ed eticamente corretto”, alleviando “la pressione esercitata dalla domanda sulle miniere di diamanti” che “costituisce una minaccia per l’ambiente”. La tecnologia Pure Diamond Block Chain, infine, potrebbe contribuire a “prevenire” il triste commercio dei diamanti insanguinati, sottraendo, così, risorse a chi con i proventi della vendita finanzia guerre e conflitti.

Per espandere il suo progetto la società giapponese pensa di utilizzare l’offerta inziale di criptovaluta di Pure Diamond Coin, “una criptovaluta” spiega “garantita da Pure Diamond Farm Singapore, per il finanziamento delle attrezzature e delle attività di ricerca e sviluppo”.

In Italia a coltivare diamanti in laboratorio è, invece, ENEA, l’agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico, che nel 2017 ha inaugurato nel Centro Ricerche ENEA di Frascati un laboratorio diamanti – con costi di produzione intorno ai 1000 euro per un diamante sintetico di 5 x 5 millimetri di grandezza – con i diamanti destinati al monitoraggo della reazione di fusione nucleare, ma anche ad applicazioni nel campo dell’elettronica, radioterapia e industria estrattiva: “Questi piccoli ‘gioielli’ di resistenza e sensibilità” spiega ENEA “infatti, possono fornire ai ricercatori uno strumento unico in grado di rilevare ciò che accade all'interno di un reattore a fusione, dove bisogna confinare il plasma a temperature di circa cento milioni di gradi centigradi. Non solo. Per i ricercatori che studiano l’energia delle stelle, avere a disposizione uno strumento come questo dà la possibilità di continuare a sperimentare rivelatori sempre più efficienti che sarebbe impossibile ottenere con altri materiali meno resistenti alle radiazioni e alle alte temperature, come ad esempio il silicio. A livello mondiale, oltre alla fusione nucleare, per i diamanti sintetici si aprono nuovi settori di applicazione, alcuni dei quali sono già realtà come l’estrazione di petrolio, gas e minerali e i rivelatori di radiazioni per pazienti e medici nei centri di radioterapia per la cura di tumori. I diamanti vengono usati anche in prodotti abrasivi, strumenti di taglio e lucidatura e nei dissipatori di calore. E nell'elettronica la resistenza a temperature elevate rende il cristallo sintetico un sostituto ideale del silicio”.

Il futuro dei diamanti sintetici sembra, nonostante tutto, roseo: “Se nel 2014” prevede ENEA “la produzione di diamanti sintetici si attestava a intorno ai 360 mila carati, nel 2018 si arriverà a 2 milioni fino ai 20 milioni entro il 2026”.

 

 

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27/09/2018