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Mondi possibili. Alla Biennale di Venezia riflessioni sulle sorti del Pianeta

Mondi possibili Alla Biennale di Venezia riflessioni sulle sorti del Pianeta
di La nuova ecologia

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Il titolo è quasi da congresso ecologista: All the world’s futures, tutti i futuri del mondo. E molte delle opere esposte alla 56a Esposizione internazionale d’arte della Biennale di Venezia, aperta fino al 22 novembre, si dimostrano sensibili alle sorti del pianeta. «Non credo alla concezione dell’artista come individuo che cerca una bellezza indipendente da quello che ci succede intorno – spiega ad esempio l’artista taiwanese Vincent J.F. Huang – Sono rimasto impressionato, qualche anno fa, dalla notizia della possibile scomparsa d’intere isole del Pacifico a causa dell’innalzamento dei mari. Ho deciso quindi di visitare la nazione insulare di Tuvalu e ho proposto alle autorità locali di lanciare un allarme internazionale utilizzando il linguaggio dell’arte contemporanea».

Un allarme fisico e diretto per i visitatori del padiglione Tuvalu, alle Artiglierie dell’Arsenale: camminando su una pedana che corre fra grandi vasche limpide e azzurre, ci si trova con le scarpe bagnate dall’acqua che esce dalle fessure sotto il peso dei passi. Una nebbiolina diffusa nella sala suggerisce il collegamento fra il problema “piedi a mollo” e le emissioni di gas in atmosfera. Hanno scelto una strada concettuale anche gli artisti che hanno collaborato all’installazione sonora Voces indígenas, nel padiglione dell’Istituto italo-latino americano, presso l’isolotto dell’Arsenale: diciassette casse acustiche sistemate su piedistalli ad altezza umana riproducono altrettante lingue e voci delle popolazioni indigene amerinde. «I curatori, Alfons Hug e Alberto Saraiva, ci hanno invitati a ricostruire simbolicamente una “casa sonora” collettiva nel padiglione dell’Iila – racconta l’artista guatemalteca Sandra Monterroso, che ha portato a Venezia il suono di una poesia indigena dal titolo Rokeb’ iq’, che significa “vento” nella lingua maya q’equchi – Più della metà degli oltre cinquecento linguaggi esistenti in America Latina sono a rischio di estinzione, e con loro gli ambienti naturali e le foreste che hanno ospitato questi popoli per secoli».

In tema di deforestazione si rimane affascinati, ma anche un po’ perplessi, di fronte a Rêvolutions, il lavoro di Céleste Boursier-Mougenot per il padiglione Francia. Due grandi conifere si spostano sulla ghiaia dei viali dei Giardini della Biennale seguendo gli impulsi della loro circolazione linfatica. Sensori applicati ai tronchi registrano i segnali interni all’albero, un computer li elabora e poi li trasmette ai motori elettrici nascosti sotto le radici, per generare il movimento. All’interno del padiglione un terzo albero si sposta con meno libertà di percorsi, mentre i visitatori si rilassano sui divani ascoltando il suono prodotto da altri alberi linkati all’elaboratore elettronico.

Come per Rêvolutions, all’indubbia efficacia espressiva si accompagna un senso di malinconia guardando le piante da appartamento incapsulate di A Glass of Anger, alle Corderie, dell’artista georgiana Thea Djordjadze. Per non parlare dello storico Dead Tree di Robert Smithson (1938- 1973), al Padiglione centrale: un albero in pieno germoglio sradicato, steso sul pavimento e traversato da specchi a doppia faccia.

Dedicato al problema della manipolazione genetica e dell’ingerenza delle multinazionali sulle tradizioni alimentari il lavoro proposto da Argelia Bravo nel padiglione della Repubblica Bolivariana del Venezuela: in un video tre donne con passamontagna neri da guerriglia allattano al seno tre bambini cantando come una ninnananna l’inno nazionale della Repubblica (lo si può vedere anche online cercando “argelia bravo himno”), mentre a fianco un altro video dal titolo Tutorial de cuchara illustra la preparazione del pasto come se fosse un’operazione di lotta da eroi della rivoluzione. «Ho studiato a lungo il linguaggio della pubblicità – spiega Argelia Bravo – perché sono convinta che l’arte, attualmente, debba pensare soprattutto all’immediatezza del messaggio. In un mondo in cui le grandi aziende sono pronte a vendere le risorse naturali e il futuro del pianeta, anche noi artisti dobbiamo fare la nostra parte, interpretando i linguaggi più efficaci per chiedere un mondo giusto e sostenibile».

Fuori dai tradizionali spazi della Biennale merita senz’altro una visita il lavoro del collettivo russo Recycle group, in Campo Sant’Antonin. Una chiesa seicentesca di impianto medioevale e tutt’ora consacrata ospita Conversion: attorno a un grande crocifisso dalla testa curva (a ben guardare è la “f” di facebook) si trovano varie sculture nate dall’ibridazione di pareti rocciose, tronchi, corpi umani e altri materiali naturali con simboli della tecnologia informatica. Particolarmente suggestive le installazioni su impalcature, dove gruppi di figure vuote, formate con reti di plastica, alludono nella composizione a scene tratte dalle sacre scritture ma rappresentano innalzamenti di tralicci per ripetitori, cablaggi di uffici, videoconferenze e altre situazioni tipiche della società informatizzata.

Nel filone del rapporto fra elementi naturali e prodotti artificiali è di grande impatto visivo la sala allestita dal cinese Qui Zhijie nelle Corderie dell’Arsenale, dove sotto un volo di uccelli in legno e metallo sono sistemati un tavolo-cervo, una grande mola che imprime costellazioni nella sabbia per poi cancellarle e decine di altri oggetti che rappresentano la complessità dei rapporti fra gli esseri umani e il mondo fisico. «Il titolo di questa Biennale, tutti i futuri possibili, è molto ambizioso – commenta Qui Zhijie – Ma non credo che l’obiettivo sia quello di fare previsioni da futurologi. Parlare del futuro significa invitare a pensare con serietà la nostra storia e il mondo in cui viviamo. Ciò che dobbiamo fare tutti per pensare e progettare il domani è guardare la realtà conciliando i nostri differenti passati, le nostre differenti identità, le nostre scelte differenti».

 

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27/07/2015