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Polemica su The Good Mothers: le donne che si ribellarono alla 'ndrangheta ora si ribellano alla fiction su di loro

L'accusa più inquietante è di Giuseppina Pesce: la serie metterebbe in pericolo la sua vita e quella dei suoi figli, risvegliando il desiderio "di fargliela pagare per aver parlato". Anche la sorella di Lea Garofalo si è scagliata contro

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E’ sempre difficile per chi ha vissuto da vicino vicende reali accettarne la rappresentazione cinematografica o televisiva. Figuriamoci per familiari, parenti o amici di vittime della criminalità. Figuriamoci per chi è stato protagonista di delitti e poi è diventato collaboratore di giustizia e ora vive sotto protezione. Per cui non stupiscono le reazioni, anche dure, alla messa in onda di “The Good Mothers”, (qui le interviste alle protagoniste) la serie Disney tratta dal libro del giornalista inglese Alex Perry che racconta la storia di tre donne che hanno osato, in modo diverso, ribellarsi alle loro famiglie ‘ndranghetiste.

Giuseppina Pesce e la paura per la sua vita e quella dei suoi figli

Due di loro, tra cui la più famosa, Lea Garofalo - uccisa dal compagno - sono morte. Una, Giuseppina Pesce, è riuscita a sottrarsi alla vendetta del clan e ora vive nascosta. Da quest’ultima arriva l’accusa più inquietante: la serie - in cui si fanno nomi e cognomi - metterebbe in pericolo la sua vita e quella dei figli, “risvegliando” il desiderio di “fargliela pagare” per aver parlato. Tra l’altro la sua testimonianza ha portato nel 2010 a una grande retata (denominata operazione “All Inside 2”) di boss calabresi. La denuncia della Pesce suscita, in effetti, importanti riflessioni: in che misura è giusto mettere in pericolo delle persone già così provate in nome di una fiction? E’ giusto accendere una luce su queste vicende troppo spesso dimenticate e, magari, aiutare a convincere altre donne a scappare da situazioni tremende, a fidarsi delle forze dell’ordine, a dare una speranza di un’esistenza migliore ai figli? Ricordiamo che c’è un progetto di legge, elaborato in collaborazione con l’associazione Libera di Don Ciotti, per consentire alle donne che scappano di entrare nei programmi di protezione, anche se non diventano collaboratrici, cioè non aiutano i magistrati a incriminare familiari o conoscenti.

"i nomi non sono stati cambiati"

Disney e la casa di produzione Wilside hanno scelto la seconda via: raccontare le storie. I protagonisti reali, da parte loro, hanno diritto a far sentire le loro ragioni. Giusy, tramite il suo avvocato Michela Scafetta, ha fatto sapere che “la serie tv è stata mandata in onda senza alcuna previa richiesta di consenso da parte sua». E ha diffidato «le case di produzione e l’emittente dalla messa in onda della serie tv ed in ogni caso si riserva di agire nelle opportune sedi». La Pesce non è d’accordo in particolare per come viene dipinto il padre, “come un orco e ciò - spiega il legale - non corrisponde al vero, essendo stato sempre amorevole con la figlia e figura di riferimento per la stessa». L’avvocato, in un’intervista rilasciata a “Vanity Fair” ha anche spiegato perché la serie mette in pericolo la famiglia. “Gli unici nomi - dice (anche se, in effetti, non è così) - che non sono stati cambiati sono quelli dalla signora e dei suoi figli, che sono facilmente identificabili. Ad oggi, uno dei figli è ancora minorenne. Non è stato assolutamente preso in considerazione lo status di collaboratrice di giustizia sotto programma di protezione della mia assistita". Inoltre “chi ha scritto, prodotto e divulgato questa serie non ha assolutamente preso in considerazione le gravi conseguenze che possono derivare a chi da anni cerca di vivere nell’ombra e che oggi si vede sotto i riflettori con il proprio nome e la propria immagine». Giusy, che prendeva parte attivamente agli atti criminosi della sua famiglia ‘ndranghetista, diventò collaboratrice di giustizia dopo essere stata arrestata. E questo grazie all’intuizione di una magistrata, Alessandra Cerreti, che aveva capito che bisognava puntare sulle donne e sulla loro volontà di salvare i figli da un destino segnato: la convinse a collaborare e da allora vive sotto protezione.

Anche la sorella di Lea Garofalo si è scagliata contro la serie

La stessa sorte non toccò a Lea Garofalo, la prima testimone di giustizia calabrese, che dopo un complicato rapporto con lo Stato, decise di ricontattare il compagno Carlo Cosco che la fece sparire. Ma la figlia Denise, che lei aveva nascosto per sette anni, fece arrestare e processare il padre con la sua testimonianza. Anche la sorella di Lea, Marisa, si è scagliata contro la serie e, in particolare, contro la scena in cui si vede lei impellicciata alla festa di compleanno di Denise (cui la ragazza non partecipò), pochi giorni dopo l’uccisione di Lea. Marisa, che si costituì parte civile insieme alla nipote, nel processo contro gli aguzzini della sorella ha annunciato una denuncia per diffamazione aggravata. “Sono scene che non corrispondono alla realtà – dice Marisa Garofalo al Quotidiano del Sud – Non sono mai stata mafiosa e non lo sarò mai. Dissi a mia nipote che non ci sarei andata alla festa, e non ci andò neanche lei perché non avevamo nulla da festeggiare». E ancora: «C’è un tentativo di screditarmi. Da anni sono impegnata a dare un contributo di testimonianza nelle scuole, raccontando la storia di mia sorella Lea. Sono a fianco di chi chiede giustizia e verità e fa antimafia sociale in maniera gratuita. Non so dove siano state prese queste notizie, che sono smentite dagli atti processuali». In realtà, nella serie, viene rappresentata come una zia che cerca di proteggere se stessa e sua nipote dalla furia dei Cosco, che sa che se si ribellano finiscono come Lea. Ma, certo, vedersi rappresentate in quel modo fa male. Ed è difficile comprendere le licenze da fiction.

12/04/2023