Chiunque abbia trascorso la propria infanzia negli ultimi vent’anni ha generalmente un immaginario ben definito su come potrebbero essere le città del futuro, consegnatogli dalla fantascienza. Dalle buie iper-metropoli di Blade Runner, costellate da enormi grattacieli e dalle famose “lacrime nella pioggia”, alle megalopoli desolate del dopo avvento delle macchine in Terminator. Come spesso accade, il cinema delle decadi passate non è stato altro che la parafrasi, la sublimazione delle nostre paure collettive. Eppure, nonostante una crisi economica, sociale e politica profondissima, potrebbe valere la pena di affrontare l’argomento delle città e dei paesaggi urbani con una vena maggiormente ottimistica.
Partiamo da un numero interessante: il 50% della popolazione mondiale oggi vive nelle città, una tendenza – quella della migrazione dalla periferia al centro, teorizzata prima di tutto nel celebre modello politologico di Rokkan – che trae la propria origine a partire dalla seconda rivoluzione industriale, la quale sancì il trionfo dell’agglomerato urbano sulla periferia. Questo rende ancora più chiaro perché nei prossimi anni le vere protagoniste e interpreti dei fenomeni globali non saranno più le nazioni.
Il parallelo con le città-stato greche o con le Repubbliche Marinare viene facile, eppure siamo di fronte a una rivoluzione che sembra avere delle caratteristiche del tutto nuove.
Il primo elemento da prendere in considerazione è quello di natura tecnologica. Sgombriamo il campo da ogni equivoco: tecnologia e ambiente non sono nemici. La ricerca scientifico-tecnica è ciò che ci permette di produrre in maniera sempre più sostenibile beni, energia e servizi. Le prospettive sono più che positive: la nascita delle cosiddette città intelligenti (smart cities) avverrà dalla combinazione di efficienza energetica ed energie rinnovabili per ridurre le emissioni e l’impatto ambientale; le coltivazioni idroponiche, l’integrazione stretta fra architettura e paesaggio naturale ci permetteranno di vivere con molto più verde attorno. La diffusione dei sensori e dell’internet delle cose garantirà una gestione più efficiente del traffico, delle risorse naturali come acqua e gas, ma anche dell’energia autoprodotta dalle nostre case e ridistribuita sulla rete attraverso le smart grid, l’evoluzione infrastrutturale delle nostre attuali reti elettriche.
La sostenibilità è il secondo elemento, intesa non solo come demografica e ambientale ma integrata strettamente (come innovazione di processo) in nuovi sistemi di governo del territorio più leggeri e capillari, capaci di aggregare gli attori e i molteplici interessi presenti nella struttura sociale a un livello micro fino a raggiungere gli apici delle istituzioni. Si tratta a tutti gli effetti di un potenziamento concreto del concetto di sussidiarietà.
Il terzo elemento è il modello economico: l’Italia degli anni ‘50 e ‘60, caratterizzata dal collettivismo proprio del primo dopoguerra, ha ceduto il passo negli anni ‘80 all’individualismo elevato a sistema, lasciandosi alle spalle, se non a parole, le evidenti responsabilità nei confronti degli altri e dell’ambiente. Quello che è possibile intravedere oggi, complice in parte anche la crisi, è l’affermarsi della sharing economy e degli schemi di circular economy. Si tratta del passaggio di alcuni settori industriali e terziari da modelli di “economia del possesso” ad “economia dell’accesso”, dove a fronte di pagamenti ricorsivi per l’intero ciclo di vita di un bene, quello stesso bene è tutelato dalla casa madre, che massimizza il proprio flusso di cassa, riducendo i costi, abbattendo le emissioni e garantendo prezzi minori.
In tutto questo è evidente l’approcciarsi di un modello di relazione individuale da parte del cittadino, permeato da un senso profondo di responsabilità nei confronti di problematiche diffuse o specifiche. Difficile stabilire se questo neonato “individualismo sociale” sia di natura squisitamente generazionale, o faccia parte di una sorta di “reazione di compensazione” o di bilanciamento nei confronti della storia dei decenni passati. Proprio in virtù di questa nuova consapevolezza, dev’essere anche chiaro che lo scenario di cui sopra non è affatto scontato: come veri e propri organismi viventi, le nostre città si evolveranno – o decadranno verso le distopie che il cinema fantascientifico ci ha reso familiari – in base a quanto saremo in grado di investire sin da ora.
La strada è tracciata. C’è da capire se decideremo di stare fermi e avere paura, o se decideremo come individui e come paese che ci meritiamo qualcosa di più del passatismo e della decadenza.