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Salute

Metodi per capire se il proprio compagno ha un disturbo psicologico

Quando il malessere bussa alla porta della coppia, non basta dire “è solo un periodo no”. Imparare a riconoscere i segnali può fare la differenza

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Quando la quotidianità di coppia comincia a traballare, è facile liquidare tutto con un semplice «è solo un periodo no». Ma se i silenzi si protraggono per settimane, l’irritabilità diventa una presenza costante e il partner si rifugia in alcol, farmaci o altre strategie di fuga per trovare sollievo, forse siamo di fronte a qualcosa di più complesso. I disturbi mentali — come la depressione, l’ansia generalizzata, il disturbo bipolare — raramente arrivano all’improvviso. Piuttosto, si manifestano con una serie di segnali graduali: isolamento sociale, cali drastici di energia, alterazioni del sonno, cambiamenti nel modo di comunicare e una visione di sé sempre più negativa.

Accorgersi di questi segnali non significa diventare terapeuti del proprio compagno, ma semplicemente prendere atto che qualcosa sta accadendo. Le frasi del tipo «mi sento vuoto», «non riesco a provare gioia» o «mi sento un peso» sono espressioni che meritano ascolto e attenzione. Il primo passo non è cercare di dare risposte, ma fare domande che aprano spazi di dialogo autentico: «Ti senti sopraffatto ultimamente?» o «C’è qualcosa che vorresti dirmi ma non sai come?».

L’obiettivo non è diagnosticare ma capire se c’è bisogno d’aiuto. Anche strumenti semplici come i test PHQ-9 (per la depressione) o GAD-7 (per l’ansia) possono essere usati come punto di partenza, non come sentenza definitiva. E se emergono pensieri autodistruttivi o una sofferenza che si trascina da troppo tempo, è fondamentale proporre un supporto professionale, senza vergogna e senza paura.

Segnali da osservare nella vita quotidiana

Capire se il proprio compagno sta affrontando un disturbo psicologico parte dall’attenzione ai comportamenti quotidiani. Non si tratta di diventare detective del disagio, ma di sviluppare una sensibilità verso quei cambiamenti che, presi singolarmente, possono sembrare banali, ma che nel loro insieme raccontano una sofferenza più profonda.

Uno dei segnali più frequenti è il ritiro sociale. Un partner che smette di vedere amici, evita le attività abituali o si chiude in casa per lunghi periodi potrebbe non essere semplicemente stanco o introverso. Questo tipo di isolamento, soprattutto se progressivo, è spesso collegato a forme di depressione o ansia sociale. Anche il rapporto con il partner stesso cambia: le conversazioni si fanno più rare, lo scambio affettivo si indebolisce, i momenti di condivisione si diradano.

Un altro indicatore rilevante sono gli sbalzi d’umore. Passare da momenti di euforia a fasi di profonda tristezza, senza una causa evidente, può essere un sintomo legato a disturbi dell’umore. Questi cambiamenti non seguono una logica apparente e possono generare confusione, sia in chi li vive sia in chi li osserva. Spesso sono accompagnati da un senso di frustrazione o colpa, che il partner esprime con frasi come «non capisco cosa mi succede» o «mi sento sempre fuori fase».

Anche il sonno è un termometro emotivo potente. Una persona che fatica ad addormentarsi, si sveglia nel cuore della notte o, al contrario, dorme eccessivamente senza mai sentirsi riposata, sta probabilmente cercando nel sonno un rifugio da pensieri disturbanti. Questo sintomo, comune nella depressione maggiore e nei disturbi d’ansia, è spesso sottovalutato, ma può rappresentare uno dei primi segnali tangibili di un malessere psichico.

Cambiamenti nel linguaggio e nell’espressione del sé meritano attenzione. Se il tuo compagno inizia a parlare spesso di sé in termini negativi, come «non servo a niente», «tutti starebbero meglio senza di me», o mostra una crescente autosvalutazione, è importante non ignorare questi messaggi. Anche un senso cronico di vuoto o l’incapacità di provare piacere in cose che prima erano significative sono segnali da non minimizzare.

Infine, l’abuso di sostanze — alcol, ansiolitici, stimolanti — come via di fuga dalla realtà è un comportamento che, se ripetuto nel tempo, va letto come un tentativo di automedicazione. Dietro a un bicchiere di troppo o a una richiesta insistente di tranquillanti può celarsi una sofferenza emotiva non espressa.

Accorgersi di questi cambiamenti non significa etichettare o fare diagnosi. Significa vedere l’altro nella sua complessità e iniziare a porsi domande. Perché il disagio psichico, prima ancora che venga nominato, si manifesta nei gesti più semplici: uno sguardo evitato, una parola in meno, un sorriso forzato.

La differenza tra stress e disagio psicologico

Molte persone attraversano momenti di forte stress senza per questo soffrire di un disturbo mentale. Tuttavia, lo stress e il disagio psicologico possono presentare sintomi simili, e saperli distinguere è fondamentale per non sottovalutare situazioni che richiedono attenzione specifica. Lo stress ha spesso una causa identificabile: un periodo intenso al lavoro, una difficoltà economica, una malattia in famiglia. Di norma, quando la causa si riduce o viene affrontata, anche i sintomi tendono a diminuire gradualmente.

Il disagio psicologico, al contrario, tende a cronicizzarsi. Non è legato a un solo evento, ma diventa parte integrante della quotidianità. Una persona può cominciare a sentirsi stanca, svuotata, disorientata senza un motivo apparente. I pensieri diventano ripetitivi e negativi, si sviluppa una sensazione di impotenza costante, e l’interesse per il mondo esterno si affievolisce. Quando il partner smette di reagire agli stimoli, si mostra apatico, fatica a prendere decisioni semplici o a trovare energia anche per attività piacevoli, probabilmente non sta semplicemente vivendo un momento difficile, ma sta affrontando un malessere più profondo.

Un altro elemento che aiuta a distinguere lo stress da un disturbo mentale è il tempo. Lo stress, per quanto intenso, è transitorio. Si può affrontare con riposo, cambi di abitudini, supporto da parte delle persone care. Il disagio psicologico, invece, tende ad autoalimentarsi, creando un circolo vizioso in cui la persona si sente sempre più bloccata, isolata, incapace di reagire. Più passano i giorni, più i sintomi diventano parte di una nuova, sfiancante normalità.

Anche le reazioni emotive differiscono. Lo stress si manifesta con tensione, irritabilità o preoccupazione costante, ma senza intaccare del tutto la capacità di funzionare. Il disagio psicologico può portare a episodi di panico, crisi di pianto improvvise, oppure a una totale anestesia emotiva, dove non si provano né gioia né dolore, solo un senso di vuoto che cresce. È come se la persona fosse presente fisicamente, ma assente interiormente.

Infine, uno dei segnali più rivelatori è il modo in cui il partner descrive se stesso e la propria vita. Frasi come «non ho via d’uscita», «non riesco più a essere me stesso», «ogni giorno è uguale e inutile» rivelano una perdita di contatto con la propria identità e i propri desideri. In questi casi non si tratta più di superare una fase, ma di riconoscere un bisogno reale di supporto.

Sapere dove finisce lo stress e dove inizia il disagio psicologico significa vedere oltre la superficie e offrire, con delicatezza e rispetto, un punto d’appoggio a chi si sta perdendo.

Come avviare un dialogo senza giudizio

Accorgersi che il proprio compagno sta attraversando un momento difficile è solo il primo passo. Il successivo, spesso il più delicato, è aprire un dialogo autentico. Parlare di disagio mentale richiede una comunicazione empatica, capace di accogliere l’altro senza forzature, senza diagnosi improvvisate e soprattutto senza giudizio.

Molte persone evitano di parlare dei propri sentimenti più profondi per paura di essere fraintese, ridicolizzate o accusate di essere deboli. Per questo motivo, è fondamentale creare uno spazio sicuro, dove il partner si senta libero di esprimere ciò che prova. In questo contesto, le domande aperte hanno un potere enorme. Chiedere «Ti senti sopraffatto ultimamente?» o «Vorresti parlarmi di come ti senti davvero, senza filtri?» permette all’altro di aprirsi in modo spontaneo, senza sentirsi messo sotto accusa o interrogato.

L’atteggiamento con cui si pongono le domande è importante quanto le parole stesse. Il tono deve essere calmo, presente, privo di sarcasmo o impazienza. Anche il linguaggio del corpo ha un ruolo cruciale: guardare negli occhi, stare seduti accanto invece che di fronte, lasciare dei silenzi che permettano di respirare tra una risposta e l’altra sono piccoli gesti che comunicano disponibilità e attenzione autentica.

È importante non etichettare né ridurre il problema a una formula semplice. Frasi come «sei depresso» o «sei solo stressato» rischiano di bloccare la conversazione sul nascere. Allo stesso modo, minimizzare — «passerà», «non pensarci» — può far sentire l’altro non ascoltato. Chi è in difficoltà ha bisogno di sentirsi accolto per quello che sta vivendo, anche se non riesce a spiegarselo o a dargli un nome preciso.

Un altro aspetto essenziale è la pazienza. Non sempre il partner è pronto a parlare subito. Può darsi che all’inizio neghi o sminuisca il proprio malessere. In questi casi, forzare la mano può peggiorare le cose. Meglio ribadire, anche con poche parole, che si è presenti e pronti ad ascoltare, anche in un altro momento. Il messaggio che deve passare è: non sei solo, e io ci sono, senza pretendere nulla.

A volte, può essere utile proporre strumenti esterni per stimolare il dialogo, come un test di autovalutazione semplice, un articolo letto insieme, o una serie tv che affronta il tema della salute mentale. Questi spunti possono fungere da pretesto non invasivo per aprire la conversazione. Ma resta fondamentale che ogni parola venga offerta con rispetto, senza il desiderio di controllare, correggere o risolvere tutto.

Il dialogo vero nasce da una sola certezza: essere disposti ad ascoltare anche ciò che fa paura.

Quando e come proporre un aiuto professionale

Arriva un momento in cui, nonostante la vicinanza, l’ascolto e il dialogo, è chiaro che il malessere del proprio compagno ha superato una soglia gestibile nella dimensione privata. In questi casi è essenziale comprendere quando è il momento giusto per proporre un aiuto professionale, e soprattutto come farlo, senza imporre né ferire.

Un primo campanello d’allarme è la persistenza dei sintomi. Quando il disagio emotivo dura da settimane o mesi, si intensifica, interferisce con la vita quotidiana e compromette le relazioni, è improbabile che si tratti di una fase transitoria. Anche la presenza di pensieri ricorrenti di autosvalutazione, di disinteresse per la vita o, peggio, di idee suicidarie, indica la necessità di un intervento clinico tempestivo.

Il modo in cui si propone l’aiuto fa la differenza. L’approccio deve essere non direttivo, ma rassicurante. Dire al partner «Forse potrebbe farti bene parlare con qualcuno che può aiutarti» o «Io sono con te, ma credo che serva anche un sostegno esterno» è molto diverso dal dire «Devi andare dallo psicologo». L’obiettivo non è forzare una scelta, ma offrire un’alternativa concreta al silenzio e alla sofferenza. 

Può essere utile proporre soluzioni pratiche e accessibili. Individuare assieme un Centro di Psicologia autorevole permette di alleggerire il carico organizzativo e rendere la proposta più concreta. Anche il medico di base può essere un primo punto di riferimento: ascolta, orienta, valuta la possibilità di coinvolgere uno psichiatra se necessario.

Strumenti come i test PHQ-9 (per la depressione) o GAD-7 (per l’ansia) possono servire come spunto per riflettere insieme, mai come etichette definitive. Non devono sostituire il colloquio clinico, ma possono aiutare a legittimare il disagio vissuto e a fare chiarezza su ciò che si prova.

È importante anche riconoscere che stare accanto a chi soffre può essere faticoso. Non bisogna sentirsi in colpa per i propri limiti, né pensare di poter risolvere tutto da soli. Offrire supporto significa esserci, non sostituirsi a un percorso terapeutico. Il gesto più generoso, a volte, è accompagnare il partner nel riconoscere che ha bisogno di qualcuno che abbia gli strumenti per aiutarlo davvero.

La buona notizia è che oltre l’80% dei disturbi psicologici risponde positivamente a un trattamento adeguato. Terapie efficaci, farmaci mirati, percorsi di sostegno psicologico possono cambiare radicalmente la qualità della vita. Sapere che il dolore ha una via d’uscita reale è un messaggio potente, capace di trasformare la paura in speranza.