Nel suo nome c’era forse il suo destino, perché la giovane Goodall ha a lungo sognato di essere la Jane di Tarzan della giungla ed è proprio dall’innamoramento per “l’uomo delle scimmie” che ne ha poi fatto una zoologa di fama mondiale. Sul palco del Vesak 2025, la celebrazione buddhista a Milano, la grande studiosa di primati ha raccontato la sua vita a partire dall’infanzia fino allo studio e alla protezione degli scimpanzé, del loro territorio, delle comunità che ci abitano, oggi che ha 91 anni.
La passione per Tarzan delle Scimmie
È da quasi un secolo che combatte per la protezione degli animali, eppure tutto è iniziato con un libro: «Quando ero piccola non c’era la Tv, vivevo in giardino, osservando gli animali. Appena iniziai a leggere mia madre, che mi ha sempre supportata, mi portò a casa dalla biblioteca tutti i libri sugli animali che trovava. Non potevamo permetterci dei libri nuovi, la Seconda Guerra Mondiale imperversava, ma un giorno in una piccola libreria di libri di seconda mano comprai “Tarzan delle Scimmie”. Mi innamorai di Tarzan e molto gelosa perché pensavo avesse sposato la “Jane sbagliata”. Leggendolo decisi che sarei andata in Africa e avrei scritto libri sugli animali. Tutte le persone a cui lo dicevo - erano 80 anni fa - mi rispondevano: “Ma come credi di andarci in Africa, non hai soldi e sei solo una ragazza”. Mia madre, come sempre mi supportò, mi disse: “Lavora duramente, cogli ogni opportunità e vedrai che ce la farai”».
Gli studi e il colpo di fortuna
Ma il lavoro duro poteva non bastare, quindi ci si mise di mezzo la fortuna: «A 18 anni ero brava a scuola ma non potevo permettermi l’università. Ho dovuto cercarmi un lavoro e ho imparato a dattilografare. Era ok, ma insomma, non proprio quello che immaginavo. In quel periodo ricevetti una lettera da una vecchia amica di scuola che si era trasferita con la famiglia in Kenya con la quale mi invitava a trovarli. Come potevo pagarmi il viaggio fino a là? Trovai un impiego nell’hotel dietro l’angolo lavorai instancabilmente per 5 mesi in modo da avere i soldi per il viaggio. Partii in nave, in un viaggio che da Londra circumnavigava tutta l’Africa fino al Sudafrica… fino al Kenya».
Tra gli scimpanzé con la mamma
E l’Africa l’accolse a braccia aperte: «In Kenya in quel periodo l'antropologo Louis Leakey raccoglieva fossili per trovare elementi comuni tra scimmie e animali. Le nostre strade si incrociarono in quel mio viaggio e mi scelse per studiare il comportamento di un gruppo di scimpanzé in Tanzania, al Parco Gombe, nel tentativo di ritrovare similitudini e gettare uno sguardo sull'evoluzione dell'uomo. Fu il primo al mondo a compiere studi del genere. Non fu facile iniziare il mio progetto: io non ero andata all’università ed era difficile convincere qualche investitore a sponsorizzare il mio lavoro. Infine Leakey trovò un filantropo americano che promosse sei mesi del mio lavoro. Solo che a quel tempo la Tanzania era una colonia britannica e non avevano intenzione di accogliere la mia richiesta, con giustificazioni come: “Ma che follia una ragazza da sola nella foresta!”. Alla fine accettarono di dare il permesso alla mia spedizione solo se fossi stata accompagnata, e indovinate chi lo fece? Fu la mia “amazing mama”», racconta Jane, parlando della madre come di una donna forte e coraggiosa in anni dove la scelta di una ragazza di studiare gli scimpanzé in Tanzania era davvero insolita.
Come gli esseri umani
Da quel momento, Jane passò tanto tempo assieme agli scimpanzé e finalmente «uno scimpanzé, un bellissimo maschio, iniziò ad accettarmi e si avvicinò sempre di più. Aveva una barbetta bianca e lo chiamai David Greybeard. Lo osservai usare i fili d’erba per cacciare le termiti, o un ramoscello che modificava perché fosse perfetto come strumento di caccia. Fu un momento fondamentale: a quel tempo si definiva l’uomo come l’unico essere in grado di costruire attrezzi, ma il mondo stava cambiando. Fu un momento veramente emozionante, in primo luogo la National Geographic Society mi diede fondi per continuare i miei studi, poi anche gli altri scimpanzé si resero conto che non dovevano avere paura di me. Iniziai a identificarli uno a uno come individui e gli diedi dei nomi, mi sorpresi nell'osservare i loro comportamenti: si abbracciavano, si baciavano, si davano le pacche sulla spalla, i maschi che concorrevano per la dominanza invece battevano i pugni minacciosi, un atteggiamento che se guardate la tv vi ricorderà senza dubbio qualche politico».
“Proprio come noi”
«Ero affascinata nell'osservare le relazioni tra i membri della stessa famiglia, che duravano, come per noi, tutta la loro vita. Proprio come noi avevano anche un lato aggressivo e brutale, i maschi possono essere molto violenti quando difendono il territorio e possono uccidere chi oltrepassa il confine. Ma proprio come noi, avevano anche un lato compassionevole, amorevole e altruistico. I maschi possono decidere di adottare cuccioli rimasti orfani salvandogli la vita».
La laurea e gli insegnamenti del suo cane
Ma dopo la pratica, ci voleva la teoria: «Ho vissuto con gli scimpanzé due anni. Poi il Dottor Leakey mi disse che dovevo prendere una laurea per essere autorevole, ed essere presa sul serio, e mi iscrisse a all'Università di Cambridge dove feci anche un dottorato. Ero molto nervosa nell'andarci, e lo fui ancora di più quando all'Università mi dissero che avevo sbagliato tutto: che non dovevo dare nomi agli scimpanzé, ma numeri. Non dovevo parlare di loro assegnandoli una personalità o delle emozioni perché queste sono condizioni umane. Era così la scienza degli anni ‘60 che divideva nettamente uomo e scimpanzé. Però era anche il momento in cui la scienza stava per cambiare, in cui si iniziava ad accettare che anche l’uomo fosse parte del Regno Naturale. Perché allora, io che ero solo una giovane ragazza, non ho obbedito a questi scienziati? La risposta è che avevo dei fantastici “insegnati” che mi dissero che i professori dicevano sciocchezze, e così anche oggi abbiamo molti maestri del genere, sono gli animali, e il mio cane me lo insegna ogni giorno. In generale nessuno che passa la vita con gli animali può non sapere che hanno la nostra stessa sensibilità».