Sorride spesso Parisa Nazari. A dispetto dalla paura con la quale ha dovuto fare i conti fin da bambina, quando viveva nel suo Iran oppresso da un asfissiante regime che nega alle donne qualsiasi libertà. La paura di essere arrestata, picchiata, torturata. La paura di essere impiccata. Dal 1994 Parisa Nazari è andata via dal suo paese e vive in Italia dove però continua a lottare per il suo popolo. Farmacista, mediatrice culturale e interprete, Parisa Nazari è un’attivista del movimento “Donna vita libertà”. L’abbiamo incontrata in sardegna dove ha raccontato la sua storia al Festival di Andaras.
Parisa vorrei sapere se hai paura, perché tu qui racconti la situazione delle donne iraniane, racconti la tua storia e però tutti sappiamo che viviamo in un mondo globale dove le parole e i video girano sui social. Hai paura che il regime iraniano possa raggiungerti anche qui?
“Non me lo posso permettere di avere paura e questo non significa che non mi senta in pericolo. Ho ricevuto delle minacce e temo tantissimo per la mia famiglia che è in Iran. Però di fronte a ciò che subiscono e affrontano le attiviste e gli attivisti che vivono in Iran, non è niente quello che potrebbe succedere a me. Perciò cerco di non pensarci. Vedo tutte queste persone, donne, uomini così coraggiose che sanno di finire in carcere, sanno di subire torture, minacce alla loro famiglia e a loro stessi. Potrebbero essere condannati a morte, perché è facile essere condannati a morte in Iran e essere impiccati. E comunque il loro senso di giustizia li porta a denunciare e a non rimanere in silenzio. Perciò avendo la fortuna di vivere in un mondo, in un paese dove c'è la libertà di espressione, io non posso rimanere in silenzio”.
Hai detto che hai ricevuto delle minacce. Di che genere?
“Adesso preferisco non scendere nei dettagli, però sono arrivate attraverso i social media. I social media sono un grande strumento di minaccia da parte degli haters, da parte delle organizzazioni. Perciò ho fatto anche la denuncia alla polizia postale”.
Perché hai scelto di andare via? Cosa ha determinato la tua decisione di abbandonare il tuo Paese e quindi anche i tuoi cari?
“Io sono stata anche sempre quella che viene definita una testa calda. Già a 14 anni i miei genitori avevano pensato di mandarmi via perché scrivevo temi contro la guerra. Erano gli anni della guerra tra l'Iran e l'Iraq, che è durata 8 anni. E io già ero una pacifista che scriveva contro quel massacro. I miei genitori avevano pensato di mandarmi a studiare in Francia quando avevo 14 anni. Avrei avuto un po' la stessa vita di Marjane Satrapi, l’autrice di “Persepolis”: noi abbiamo la stessa età. E invece poi abbiamo deciso di aspettare i 18 anni e il diploma e poi subito dopo sono uscita dall'Iran perché veramente quel periodo era un momento di grande oppressione. Era appena finita la guerra, ma continuava questa retorica sulla guerra, sul martirio. Oggi le donne sono molto più coraggiose, hanno conquistato dei diritti, non perché sono stati loro concessi ma perché se li sono guadagnati con la disobbedienza civile. In quel periodo sono stata arrestata dalla Polizia Morale per aver riso ad alta voce”.
Davvero ti è capitato questo?
“Sì, sono stata arrestata. Ero una ragazza molto allegra, perciò spesso ero in giro per la città con atteggiamenti non proprio consoni a quelle che all'epoca erano le regole. Adesso non è più così, perché le donne un passo alla volta hanno conquistato più diritti, riescono a esprimersi liberamente. Ma nel 1994, quando io sono andata via dall’Iran, potevi venire arrestata semplicemente per avere un atteggiamento troppo allegro. Sono stata arrestata a una festa di compleanno e ho passato la notte nel carcere di Vozara, a Teheran, lo stesso dove è stata portata Masha Amini, dove è stata picchiata fino alla morte. Conosco quel posto. Tutte le donne che conosco conoscono quel posto, perché almeno una volta ci sono state. Perciò erano anni veramente terribili, gli anni 80, gli anni 90”.
La percezione che abbiamo noi qua è che la situazione non sia così migliorata. Quando vediamo le scene terribili di arresti da parte della Polizia Morale la situazione sembra sempre molto drammatica. D’altra parte la morte di Masha Amini, solo per un ciuffo di capelli che si vedeva dal velo, è di appena tre anni fa.
“In realtà non bisogna mai pensare che il regime iraniano sia migliorato o si sia riformato. Quella che è migliorata è la percezione della società civile iraniana dei propri diritti, la consapevolezza. Perciò, dopo l'uccisione di Masha Amini, la Polizia Morale ha dovuto ammettere che sono milioni le donne che non portano il velo e loro non hanno abbastanza mezzi per arrestarle tutte. Questo è successo, che le donne hanno conquistato questi spazi, questi piccoli diritti, come per esempio, portare il velo più corto, il velo più colorato, il soprabito più corto, più colorato, più trasparente. Io ogni anno tornavo in Iran, ci stavo per un mese e mi rendevo conto come era cambiato in un anno il Paese”.
Vedevi il velo che piano piano cadeva.
“L'ultimo anno che ci sono stata, un paio di mesi prima dell'uccisione di Masha Amini, il velo non c'era.Io mi chiedevo: “Dove sono i veli?”. Forse le donne ce li avevano in borsa, ma non sulla testa. La legge prescrive che le donne obbligatoriamente devono portare il velo, ma nei fatti, nella realtà, molte di loro non lo portano e per questo rischiano. Ma essendo così tante non possono essere tutte arrestate o torturate. È un rischio calcolato. Ogni donna in Iran, quando esce di casa, quando si mette davanti all'armadio e decide cosa indossare, in quel momento fa una scelta politica. Decide di compiere un'azione di disobbedienza civile oppure no. Nel momento in cui decide di compiere questa azione, sai che quel giorno potresti non tornare a casa. Puoi essere arrestata dalla Polizia Morale, essere portata in un'aula di tribunale come una criminale, essere condannata a una multa, alla detenzione, ma potresti essere anche picchiata. Potresti anche essere uccisa, come è successo a Masha Amini. Sono dei rischi che ci sono, ma le donne corrono questi rischi e sono sempre di più. Ho amiche, cardiologhe, dottoresse, professioniste che hanno perso il lavoro perché hanno deciso di non portare più il velo. E allora il lavoro continuano a svolgerlo in uno studio privato, non possono più andare all'ospedale, alla clinica, ma lavorano lo stesso. Decidono di rinunciare a pezzi della loro vita pur di non portare il velo. E questa è una cosa che spiazza il regime”.
Sei ottimista? Secondo te questo regime è destinato a morire oppure continuerà a opprimere il tuo popolo a lungo?
“Io sono ottimista di natura. Per fare l'attivista, secondo me, l'ottimismo è fondamentale. Altrimenti, non dedichi la tua vita alle cause perse, se pensi che siano perse. In più, la Storia ci insegna che le dittature prima o poi cadono. Perciò io sono ottimista per l'Iran, ma devo dire che questo ultimo attacco israeliano, questa guerra di 12 giorni, purtroppo ci ha portato indietro di tantissimo. Ha rafforzato paradossalmente il regime e ha indebolito la società civile. Le guerre servono a questo, a portare morte e devastazione, a indebolire la società civile. Le dittature vogliono le guerre. Perciò le guerre fanno il gioco delle dittature. È per questo che il regime iraniano ha sfidato continuamente il mondo. Perché sperava in una guerra. Come del resto, Benjamin Netanyahu ha fortemente voluto questa guerra. Non perché in Israele ci sia una dittatura, ma perché anche lui, per altri motivi, ha bisogno di questa guerra”.
C'è stato un momento in cui hai avuto molta paura, un momento di quelli che segnano un prima e un dopo nella vita?
“Per me questi 12 giorni di bombardamenti sull’Iran sono stati devastanti. Sono stata costantemente al telefono con i miei amici, con i miei parenti. E mentre stavo al telefono sentivo le bombe. Poi c'è stato un giorno in cui non si poteva più chiamare nessuno, era tutto bloccato. E quelle ore sono state terribili. Perché tu non potevi chiamarli e non sapevi se erano vivi. Abbiamo una chat delle amiche che vivono in tutto il mondo, in Iran e fuori: la sera prima noi ci eravamo sentite, loro avevano lasciato dei vocali in cui dicevano che le esplosioni erano fortissime e poi c’è stato solo silenzio. Quelle sono state veramente le ore più difficili”.