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Iraq, quella guerra per l'olio nero e le ricchezze naturali

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Il 12 novembre è il dodicesimo anniversario dell’attentato a Base Maestrale, in Iraq, dove persero la vita militari e civili italiani, nonché alcuni locali, senza dimenticare i tanti feriti. Perché gli italiani furono dislocati ad An Nasiriyah?

Una guerra per il petrolio e per l’accaparramento delle risorse naturali, questo è stato l’Iraq. Un conflitto con danni sociali, economici e ambientali. L’invasione fu preparata pensando all’olio nero, un banchetto che faceva gola anche all’Italia. Un piano politico sostenuto dai vertici militari: la missione a protezione dei proventi della ricostruzione e dello sfruttamento delle ricchezze naturali. Una guerra dentro la guerra.

È il febbraio 2003 e sul tavolo del Ministero delle Attività Produttive c’è un dossier commissionato a Giuseppe Cassano, docente di Statistica Economica a Teramo, sei mesi prima dell’attacco: Iraq: le opportunità del dopo Saddam. Il documento, che nella premessa annuncia una “azione militare guidata dagli Stati Uniti” per rovesciare il “regime di Saddam Hussein”, ufficialmente per riportare la democrazia nel paese, invita l’Italia a sfruttare la ricostruzione, un affare da 300 miliardi di dollari.

Nel dossier s’invita il governo a riflettere sull’opportunità Iraq, dove si sarebbe potuta giocare una “carta” anche per le “iniziative dell’Eni circa i giacimenti di Halfaya e Nassiriya”, lusingando Roma sulle riserve di greggio irachene: 112,5 miliardi di barili, quelle “accertate”, oltre 200 miliardi di barili, quelle “potenziali”, ciò che faceva dell’Iraq il secondo paese al mondo, dietro l’Arabia Saudita, per ricchezza petrolifera.

Non solo petrolio, il dossier cita, infatti, anche le riserve di gas pari a 3200 miliardi di metri cubi, quindi i fosfati, con riserve pari a 10 miliardi di tonnellate, “estratti da un grande giacimento non lontano dal confine della Siria” e “utilizzati per la produzione di fertilizzanti nell’impianto di al Qaim”. E lo zolfo, ricordando come in Iraq si trovassero depositi di zolfo “tra i maggiori al mondo”, tutti localizzati a “Mishrat, vicino Mossul”, dove già diverse “società occidentali” avevano “collaborato tecnicamente ai fini dello sfruttamento minerario e, a valle, a quello chimico industriale”.

Nel dossier si parla anche delle misure allo studio negli Stati Uniti per prevenire, dopo l’esperienza della prima Guerra del Golfo, la perdita dei pozzi petroliferi, con spegnimenti ora più velocizzati, i cui costi si sarebbero potuti ammortizzare con le esportazioni di greggio.

L’interesse per il petrolio iracheno sarebbe stato negato dal governo italiano prima, durante e dopo l’ingresso in Iraq. L’8 febbraio 2003 IlSole24 Ore scrisse che il “pieno sostegno” di Roma alle “posizioni degli USA e della Gran Bretagna sul conflitto iracheno” avrebbe potuto “generare importanti ricadute economiche a favore dell’ENI” e che se la “guerra” si fosse fatta, si sarebbero poste le “condizioni per l’ingresso del cane a sei zampe in territorio iracheno”.

Il 22 marzo l’Ansa riferì come l’Eni fosse in trattative con la spagnola Repsol per il “giacimento di Nassiriya”, svelando: “A fare la mappatura del petrolio iracheno è uno studio del Royal Institute of International Affairs, pubblicato dalla Staffetta Petrolifera. Secondo lo studio, che sarà presentato ufficialmente al Rome Energy Meeting di giovedì 27 marzo, l’anno scorso l’Iraq ha estratto 2,5 milioni di barili di petrolio, il 2% della produzione mondiale. Ma questa quota potrebbe raddoppiare o arrivare in 5-10 anni fino al 6-7% una volta eliminate le sanzioni Onu e a condizione che si riuscisse a fare investimenti per più di 20 miliardi di dollari”.

Nella primavera del 2003, durante la Force Generation Conference for Iraq, l’Italia chiese e ottenne di “stanziare i propri militari nella provincia di Dhi Qar”, con capitale An Nasiriyah. Il 30 maggio l’Adnkronos riferì che l’Eni era “molto interessata alla possibilità di entrare in Iraq”, secondo quanto comunicato all’assemblea annuale dall’amministratore delegato Vittorio Mincato.

Il 13 novembre 2003, dopo l’attentato a Base Maestrale, IlSole24Ore parlò di un viaggio di una delegazione Eni in Iraq nel giugno 2003 – e quindi ancor prima dell’arrivo delle truppe italiane – a bordo di un aereo militare: “Da tempo l’ENI ha gli occhi sui campi petroliferi di Nassiriya. All’ENI quel giacimento da 300 mila barili al giorno e con riserve tra i 2 e i 2,6 miliardi di barili interessa dai tempi del regime di Saddam, ma dopo la guerra l’azienda italiana ha riaperto il negoziato con gli americani di Paul Bremer e con il ministero del Petrolio irakeno. A giugno una delegazione dell’ENI si è recata a Baghdad a bordo di un aereo militare italiano per discutere nei dettagli”.

An Nasiriyah compare in un documento del 5 marzo 2001, in una delle due liste fatte stilare dall’allora vice presidente americano Dick Cheney, ispiratore del National Energy Policy Development Group, ribattezzato Cheney’s Energy Task Force, con i nominativi di più di sessanta compagnie, tutte tranne che americane, con interessi oil & gas in Iraq: “Italy. Agip. Nasiriya. PSC initialed Apr. 97 $ 2 bn, 23-year project (w/partner Repsol)”. E ancora: “Iraq-Turkey gas pipeline. Discussions. Block 1. Collected data, discussions”. Tutto fermo a causa delle sanzioni, che, una volta eliminate, avrebbero sbloccato contratti e trattative in corso, di fatto tagliando fuori le compagnie americane. Un rischio che la Casa Bianca non intendeva correre.

Nel gennaio 2003 la Cia realizzò una mappa dettagliata con i siti di interesse, in Iraq: campi a olio, raffinerie…

Nei suoi cablogrammi della primavera del 2003, l’ambasciatore Melvin Sembler, plenipotenziario di George W. Bush a Roma – cui l’allora ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, si rivolgerà a ottobre e dicembre 2003, quindi prima e dopo l’attentato a Base Maestrale, chiedendo un maggior coinvolgimento dell’Italia nella ricostruzione irachena – parlerà dell’aiuto del governo italiano nell’assistere la “coalizione nel vincere la guerra in Iraq”. “Il supporto logistico all’esercito USA è stato eccezionale” così, il cablogramma. “Abbiamo ottenuto quel che avevamo richiesto in termini di accesso alle basi, transito e sorvoli, assicurando che i soldati – comprese le truppe su voli charter civili – potessero attraversare agevolmente l’Italia per recarsi a combattere. Gli aeroporti, i porti e le infrastrutture dei trasporti italiani sono stati messi a nostra disposizione.

La baia di Augusta, in Sicilia, è diventata uno snodo fondamentale per i rifornimenti, più di 1000 missioni sono state completate con successo alla stazione aeronavale (NAS) di Sigonella e Aviano ha sostenuto il più vasto movimento bellico di C-17S dal suolo italiano della storia. Inoltre le autorità di pubblica sicurezza hanno impedito a manifestanti di fermare treni e autocarri che trasportavano equipaggiamenti USA attraverso l’Italia alle aree di sosta per l’inoltro in Asia sud-occidentale. La protezione militare è stata aumentata presso le installazioni militari USA in tutta Italia e il governo italiano ha aderito virtualmente a tutte le nostre richieste per garantire che le navi USA che transitavano nella baia di Augusta a sostegno dell’operazione Iraqi Freedom fossero adeguatamente protette”.

L’Italia come piattaforma verso l’Iraq, un prezzo pagato per potersi sedere al tavolo della spartizione delle ricchezze irachene.

È il 1° aprile 2009, con il quotidiano Milano Finanza che annuncia una “offerta da parte di Eni per il contratto relativo al giacimento di Nassiriya in Iraq”. Parola di Paolo Scaroni, nuovo amministratore delegato Eni, con An Nasiriyah tornata in scena in un’audizione al Senato.