Scrittura poetica, sottile e profondissima, che illumina pieghe sconosciute dell’animo umano di fronte al tempo, ai dolori, alle speranze. Con “Gita al faro” (1927) Virginia Woolf, una delle maggiori figure letterarie del ‘900, attivista per i diritti delle donne, scrive un capolavoro lirico e inarrivabile.
Ogni gesto, ogni fatto narrato è in realtà un’emozione, un riflesso della coscienza. “Andavano da lei, spontaneamente, perché lei era una donna, tutto il giorno, con questa o quella richiesta; uno voleva una cosa, uno un‘altra; i ragazzi crescevano; a volte le sembrava di non essere altro che una spugna imbevuta di emozioni umane”.
Una famiglia progetta una gita al faro, in Cornovaglia, un isolotto “non più grande di un campo da tennis (…) senza lettere né giornali e senza veder mai nessuno”. Ma c’è maltempo: tutto viene rinviato. Un’attesa che dura dieci anni: sempre nuovi imprevisti impediranno quella gita così tanto attesa: la prima guerra mondiale e altri lutti. Il faro è una meta simbolica, lontana, una luce sull’abisso dell’esistenza. Quando sbarcheranno al faro, “che era diventato quasi invisibile, si era sciolto in un vapore azzurro”, la protagonista, la signora Ramsay, è ormai morta e la sua amica concluderà in quel momento il quadro che aveva iniziato. “Non era stato necessario che parlassero. Avevano pensato le stesse cose e lui le aveva risposto senza che lei dovesse chiedere nulla.” Il vero tempo è il tempo interiore, ci dice Virginia Woolf. E’ la nostra coscienza, con la memoria e le sensazioni che custodisce, la misura di tutti gli accadimenti. “Sarebbero sempre, pensò riprendendo a salire, per quanto potesse essere lunga la loro vita, tornati a quella sera; a quella luna; quel vento; quella casa: e anche a lei. La lusingava, là dove era più sensibile alle lusinghe, pensare che, per quanto lunga potesse essere la loro vita, lei sarebbe rimasta parte del tessuto dei loro cuori; e questo, e questo, pensò, salendo le scale, ridendo, ma con affetto”.
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