Sapore di terra, di boschi, di notti illuminate dal fuoco. Resa dei conti dopo la guerra di Resistenza, appena finita. È “La luna e i falò”, di Cesare Pavese (1950, Feltrinelli), torinese, uno dei più grandi scrittori italiani, morto suicida. Questo è il suo ultimo libro e il più importante. Il protagonista, Aguilla, che è poi Pavese, cerca fortuna all’estero, come fanno ancora tanti ragazzi italiani.
Quando torna, nelle colline delle Langhe, in Piemonte, capisce che era partito perché “non tanto era stata l’America quanto la rabbia di non essere nessuno, la smania più che di andare, di tornare un bel giorno dopo che tutti mi avessero dato per morto di fame. (…) Non era stato coraggio, gli dissi, ero scappato”. Rivede il suo mondo con occhi diversi: “Non erano cambiati un gran che; io, ero cambiato.” Capisce però che la sua identità è lì, dove era cresciuto, perché “Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”
Una scrittura aspra e poetica, che sa di cascine e di nostalgia: “E di nuovo, guardandomi intorno, pensavo ai quei ciuffi di piante e di canne, quei boschetti, quelle rive – tutti quei nomi di paesi e di siti là intorno – che sono inutili e non danno raccolto, eppure hanno anche quelli il loro bello (…) e fa piacere posarci l’occhio e saperci i nidi. Le donne, pensai, hanno addosso qualcosa di simile.”
Un racconto di sguardi e di riflessioni: “Non sapevo che crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire, ritrovare la Mora com’era adesso.” Si mette a cercare Santina, conosciuta quando era ragazza. Non la troverà. Era diventata una spia dei tedeschi e poi delle Camicie Nere.
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